Recensione Afterschool (2008)

Sembra conoscere bene la materia che tratta, l'esordiente ventiseienne Antonio Campos, con un film dallo stile asciutto, quasi documentaristico ma in grado di coinvolgere nel profondo.

Il disagio documentato

Robert è un teenager come tanti, appartenente alla cosiddetta Youtube Generation: un po' goffo, dedito al voyeurismo internettiano, alle prese con i primi approcci con l'altro sesso e con addosso un costante senso di inadeguatezza. Ma Robert è anche un grande appassionato di riprese video, con un occhio particolare per la composizione dell'immagine che non sfugge a compagni di scuola e insegnanti. Non stupisce troppo, così, che proprio l'occhio della videocamera di Robert, durante le riprese di un filmato scolastico a lui affidato, si trovi ad essere testimone della tragica fine di due studentesse, due gemelle belle e popolarissime vittime di un'overdose nei corridoi della scuola. La decisione del preside di affidare a Robert un documentario che dovrebbe ricordare le due gemelle scomparse, trasforma lentamente la vita del ragazzo in un incubo, tra terribili sospetti sul suo compagno di stanza e un muro sempre più spesso eretto verso compagni e adulti.

Sembra conoscere bene la materia che tratta, l'esordiente ventiseienne Antonio Campos, già vincitore di numerosi premi per i suoi cortometraggi e presente nel 2008 a Cannes con questo suo interessante Afterschool. Il regista usa infatti un registro assolutamente asciutto, coscientemente basato sulla soppressione di qualsiasi artificio spettacolare, per raccontare un mondo di cui sembra avere una conoscenza profonda e probabilmente vissuta in prima persona. I fatti si svolgono in parte attraverso l'occhio della videocamera di Robert, in parte davanti al suo corrispondente filmico, la macchina da presa di Campos, che riprende i suoi personaggi in modo neutro, con lunghi piani sequenza spesso consapevolmente sgrammaticati (il fuori campo durante i dialoghi è una costante) e un interessante uso espressivo della profondità di campo: il tutto, memore della lezione del cinema diretto degli anni '60 e di certa Nouvelle Vague, allo scopo di mostrare lo spaesamento e la sofferenza di un adolescente in un contesto sempre più ostile, ma soprattutto per un limpido, lucido atto di accusa contro l'istituzione scolastica statunitense; istituzione chiusa e moralista, incapace di fronteggiare la tragedia quando si presenta e capace solo di reagire con un'inutile quanto inefficace stretta repressiva.

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a una profondità e una lucidità di sguardo sorprendente, il giovane regista statunitense, che non concede nulla neanche alla "moda" della camera a spalla ormai imperante in certo cinema indipendente, e restituisce un'estetica ancora più asciutta, ma assolutamente pregnante, di modelli sulla carta vicini come l'Elephant di Gus Van Sant o il discusso Niente da nascondere di Michael Haneke. Eppure, nonostante l'apparente asetticità del suo stile, nonostante l'assenza di colonna sonora e il disinteresse per i meccanismi spettacolari più elementari, il coinvolgimento che il film provoca nello spettatore è innegabile, e il disagio che lascia a fine proiezione è reale e da rimarcare. Si può perdonargli un voyeurismo a tratti d'accatto e sconfinante nel didascalismo (vedi il dettaglio sulle gambe della ragazza durante la lezione scolastica) e una componente thriller appena accennata, in fondo abbastanza inutile. La forza del suo sguardo comunque cattura e resta impressa, e mette un'ipoteca importante su un nome nuovo del panorama indipendente, di cui farà piacere, in futuro, avere altre notizie.

Movieplayer.it

4.0/5