Recensione Koma (2004)

Terzo film dell'hongkonghese Law Chi-Leung, questo "Koma" conferma la tendenza del regista alla contaminazione di stili, pur mostrando qua e là molti difetti di sceneggiatura.

Il collezionista di organi

Durante una festa nuziale, la giovane Ching è testimone di un sanguinoso omicidio: la polizia pensa che dietro il delitto ci sia lo stesso individuo che, nelle ultime settimane, ha ucciso diverse persone asportandone i reni. Durante un confronto all'americana, Ching riconosce una giovane donna, Ling, che aveva visto sulla scena del crimine; Ching viene a sapere successivamente che la donna ha avuto una relazione con il suo ragazzo. La scoperta, unita al riacutizzarsi della malattia renale da cui è affetta, finisce per minare l'equilibrio psicologico di Ching, minacciata anche da strane telefonate; la donna si convince che la responsabile dei delitti e delle minacce da lei ricevute sia Ling, ma deve ricredersi quando quest'ultima la salva da un rapimento ad opera del vero maniaco. Tra le due donne finisce per nascere una forte amicizia, ma l'assassino è ancora in agguato, più pericoloso che mai.

Al suo terzo film, dopo i precedenti Double Tap e Inner Senses, il regista Law Chi-Leung dirige un thriller psicologico ispirato a una leggenda metropolitana orientale (furti di organi in un'anonima metropoli asiatica), ispirandosi tanto ai più recenti thriller statunitensi quanto all'horror italiano degli anni '70 (in alcune scene si nota chiaramente l'influenza del nostro Dario Argento): il tutto filtrato attraverso un'ottica tipicamente orientale, sublimata nella componente melò di chiara matrice hongkonghese. Che fosse un cinema ibrido, quello di Law, si era capito già in Inner Senses, ghost story in cui la derivazione post-Ringu si andava a sposare con un'estetica di stampo occidentale, intelligentemente rielaborata alla luce della sensibilità cinematografica locale: con meno equilibrio, e con una sceneggiatura di livello sicuramente inferiore, il regista compie qui un'operazione simile, pur in un contesto diverso come quello del thriller. Lo script è costantemente in bilico tra giallo psicologico, suggestioni horror, love story al veleno e melodramma: un equilibrio, come si è detto, non sempre perfetto, con compenenti così variegate da risultare molto difficili da amalgamare. Non mancano le incongruenze, alcune vistose, e la componente melò, esplicitata nel tema dell'amicizia femminile (rappresentata qui con tinte tanto forti da sfiorare l'omoerotismo), sembra essere alla fine quella meglio sviluppata, al punto da diventare sovente (specie nella parte centrale del film) preponderante sugli altri motivi proposti.

Va detto tuttavia che, nonostante i difetti di sceneggiatura, l'estrema eleganza formale del film riesce a controbilanciare questi aspetti, grazie a una regia ricca di atmosfera, caratterizzata da lunghi piani sequenza e morbidi movimenti di macchina, e a un'ottima, inquietante fotografia. Law, al suo terzo film, sembra avere già un'idea di cinema molto precisa, sa come dirigere sequenze ad alto contenuto emotivo e come manipolare il materiale a sua disposizione: persino un'evidente citazione di un classico statunitense (che lasciamo scoprire allo spettatore), che altrove sarebbe apparsa quantomeno fuori luogo, non disturba qui più di tanto. Le due protagoniste Angelica Lee e Karena Lam (viste rispettivamente in The Eye e nel già citato Inner Senses) offrono prove convincenti, in due personaggi pensati per rappresentare l'uno la nemesi dell'altro; un elemento importante, quest'ultimo, per la riuscita di un thriller psicologico in cui molto è affidato alla recitazione dei due personaggi principali. Il sorprendente finale (e "soprendente", si badi bene, non è necessariamente sinonimo di "a sorpresa") colpisce dando ulteriore forza al film, e riuscendo a far dimenticare, almeno "a caldo" dopo la visione, quelle incongruenze e quei tentennamenti a cui lo script non è riuscito a sottrarsi.

Movieplayer.it

3.0/5