Recensione The Dark (2005)

Un horror-soft che non esprime tutte le potenzialità che si intravedono in embrione, affidandosi a una brava attrice e agli stereotipi del genere

Il buio non fa poi così paura

Per ridare un po' di slancio all'horror soft, da sala e pubblico generaliste, per intenderci, un cartello di produttori anglofoni ha reclutato due astri nascenti del panorama attoriale internazionale: Sean Bean, già visto nella saga de Il signore degli anelli, e la splendida Maria Bello, musa del Cronenberg di A History of Violence.
Curiose le analogie con un altro film del genere, Half Light, uscito appena qualche settimana prima, che vedeva Demi Moore assoluta mattatrice della scena.
In entrambi i casi il lato "misterioso" del film ruota intorno ad antiche leggende popolari, nel primo caso scozzesi, nel nostro gallesi; in entrambi i film la dinamica narrativa è segnata dalla perdita di un figlio da parte della madre; e in tutte e due le pellicole a interpretare la parte della protagonista è una grande star del jet-set.
Questa riscoperta del mito locale, attinto di volta in volta da regioni diverse di una terra antica e profonda come quella del Regno Unito, è sicuramente un ottimo spunto per il genere, e potenzialmente buon materiale per una riscoperta cinematografica delle specificità locali anche attraverso il loro lato più oscuro e meno lineare.

Purtroppo, in entrambi i casi, la confezione da blockbuster dei film, tende a sminuire e a ipertrofizzare quello che è lo spunto più intrigante del plot.
Nel caso di The Dark, poi, gli stilemi e la semantica del genere vengono pedissequamente ricalcati in tutti i propri stereotipi: la casa isolata, il vecchio del posto che nasconde un mistero, una stanza misteriosa e via discorrendo.
Nonostante ciò il film risulta godibile per almeno due terzi. All'interno di una situazione familiare non chiarissima, si muovono, da separati in casa, un padre solitario e affettuoso, una madre dalla bellezza abbagliante, e una figlia, la cui preferenza nei confronti del padre è evidente. A questa premessa narrativa, costellata da qualche sequenza di montaggio che accosta diverse immagini, reali e non, che vengono sognate in incubi spaventosi(?), si aggiunge la scomparsa della figlia e l'introduzione del concetto di "Annwyn", una sorta di aldilà, per la cultura gallese, dal quale, in cambio del sacrificio di un'altra vita, si può tornare.
E così la vicenda della scomparsa della ragazzina si va inevitabilmente a intersecare con vecchie storie di pazzie di uomini e di bambine morte orribilmente, generando un'ultima mezz'ora di una confusione più o meno voluta, con uno scambio frenetico di piani spaziali, temporali e narrativi che finiscono con l'impedire una lettura in qualche modo consequenziale degli eventi.
Si perde però del tutto la ricchezza del mito, trasformato in un mero pretesto da "soggettiva+porta cigolante" per generare qualche meccanica scarica di adrenalina.

Una brava attrice, un discreto regista e una approssimativa fruibilità sono le caratteristiche principali di un film che aveva in embrione potenzialità sicuramente maggiori di quelle che poi sono state sfruttate sullo schermo, purtroppo tese ad un compromesso al ribasso.