Recensione Viaggio in paradiso (2011)

Dismessi i panni del regista esagitato e ambizioso, Mel Gibson recupera la verve più ironica e cialtronesca degli esordi in questa divertente action comedy che sfrutta tutta la carica grottesca e sovraccarica delle atmosfere messicane.

Il bambino e il fuorilegge

L'ambientazione messicana, caratterizzata dall'eccesso e dall'esagerazione in ogni suo aspetto (culturale, sociale e paesaggistico) è stata da sempre per il cinema americano il territorio privilegiato in cui mettere in scena storie ricche di sfumature grottesche, nelle quali molto spesso la dimensione oscura e sanguinolenta va a braccetto con quella più vivace e colorita. Ne sa qualcosa l'alfiere del pulp Robert Rodriguez, che di recente ha riportato in auge un eccentrico e ricchissimo immaginario legato al Messico (dai mariachi alle calavera, passando per i luchador). E la provocatoria star Mel Gibson, in attesa di darsi da fare nel seguito del cult movie Machete, dimostra già in Viaggio in paradiso (ma è decisamente molto più ironico il titolo originale How I Spent my Summer Vacation) di trovarsi a suo agio in questi polverosi e assolati territori, dove la violenza imperversa e l'unica legge che conta è quella della sopravvivenza. Dismessi (almeno per il momento) i panni del regista esagitato e ambizioso, il divo australiano sta tentando di lasciarsi alle spalle i pesanti scandali familiari e le discusse dichiarazioni che hanno nuociuto alla sua carriera per riscoprire la verve di interprete degli esordi, che lo ha visto uno degli indiscussi protagonisti dell'action comedy anni Ottanta con film come la celeberrima serie di Arma Letale. Ed è un po' a questo particolare filone che si rifà anche il film diretto dall'esordiente Adrian Grunberg, pupillo di Mel (è stato aiuto regista di Apocalypto e responsabile della seconda unità di Fuori Controllo), che ha il pregio ormai sempre più difficile da riscontrare nelle produzioni contemporanee di non prendersi per nulla sul serio, ma anzi di andare fiero della propria anima cialtronesca da B-movie.


Insolito è anche lo spunto da cui scaturisce il soggetto: il carcere messicano, realmente esistito, di "El Pueblito", nato come innovativo esperimento di rieducazione negli anni Cinquanta e finito per trasformarsi in una sorta di piccola città-stato, interamente controllata dalla criminalità e al di fuori di ogni giurisdizione. In questo strano luogo, che somiglia molto poco a una prigione e sembra piuttosto un'enorme baraccopoli in cui prolifera ogni forma di delinquenza e di traffico illecito, viene catapultato all'improvviso il personaggio interpretato da Gibson. Si tratta di un rapinatore dall'identità e dal passato misteriosi, beccato durante un grosso colpo sul confine messicano da due poliziotti corrotti, i quali si intascano la cospicua refurtiva e lo gettano in pasto alla crudele fauna di El Pueblito. La sceneggiatura prosegue seguendo i binari classici del prison-movie e del_ buddy-action_, dando vita a una curiosa accoppiata di protagonisti: accanto al fuorilegge troviamo un bambino di dieci anni, già accanito tabagista, e figlio di un ex detenuto assassinato dal boss che gestisce il carcere, Javi. Il ragazzo fa da anfitrione al nuovo arrivato, introducendolo al duro mondo di El Pueblito. In cambio il buon Mel si comporterà da padre putativo, prendendosi cura di lui e della madre: il mefistofelico Javi, infatti, vuole mettere le mani sul fegato del bambino per potersi curare da una malattia congenita. Naturalmente il nostro (anti)eroe troverà anche il tempo di rimpossessarsi del suo bottino e di farsi strada al di fuori del penitenziario, riuscendo persino a regolare anche qualche conto con il passato.

Pur con qualche necessaria concessione al politically correct (ad esempio il protagonista coinvolge il bambino in tutta una serie di attività rischiose e illegali, ma gli impone comunque di smettere di fumare) Viaggio in paradiso non lesina sul sangue e sulle immagini truculente e si diverte a mettere in scena un personaggio assolutamente anticonvenzionale, un affascinante mascalzone che Gibson riesce a rendere con la giusta carica di ironia. Adrian Grunberg dimostra di avere una notevole padronanza tecnica e dimestichezza nella direzione delle coreografie d'azione, che nel film sono tutte improntate sull'accumulo grottesco (come la sparatoria filmata al ralenty che sembra uscita da uno spaghetti western, oppure la scena decisamente sopra le righe in cui Gibson prende al balzo una granata per lanciarla di nuovo contro il proprio avversario). Non mancano neppure momenti citazionisti e autoironici in cui l'attore scherza con la sua immagine di divo, oppure si diverte a bersagliare altre icone del cinema (esilarante in particolare la sequenza cult in cui finge al telefono di essere Clint Eastwood).
Viaggio in paradiso rappresenta insomma un divertente e liberatorio contraltare alla magniloquenza e al gigantismo della filmografia gibsoniana e dimostra come, nonostante tutto, il ruolo che più si adatta a Mel rimane quello più genuinamente tamarro degli esordi.