Recensione Mariti in affitto (2003)

Un cinema che vola basso e si nasconde troppo spesso in un macchiettismo irritante e in alcune involontarie pretese simil-sociologiche sul nuovo femminismo e sulla crisi d'identità dell'uomo moderno.

Idee in affitto

Scritto e diretto dall'esordiente Ilaria Borrelli, attrice, scrittrice e sceneggiatrice da tempo trapiantata a New York, Mariti in affitto è una commedia girata nella Grande Mela ma italiana per caratteristiche e situazioni. Sorretto da un cast internazionale che affianca ai nostrani Maria Grazia Cucinotta e Pierfrancesco Favino, Brooke Shields e addirittura il mitico comico Chevy Chase, il film è incentrato sulla figura di Maria Scocozza (un'accettabile Maria Grazia Cucinotta) artigiana fabbricante di scarpe che decide di impacchettare vestiti e figli per andare in America a riprendersi il marito emigrato alla ricerca della fortuna artistica. Come da copione, l'inserimento sarà durissimo e dominato da situazioni grottesche e pseudo colpi di scena.

La Borrelli ha studiato cinema in america, si dice innamorata di Woody Allen, Pedro Almodovar e del grandangolo come tecnica di ripresa, ma il suo cinema vola basso e si nasconde troppo spesso in un macchiettismo irritante e in alcune involontarie pretese simil-sociologiche sul nuovo femminismo e sulla crisi d'identità dell'uomo moderno. Le interpretazioni, in un contesto di scrittura decisamente poco illuminata, sono probabilmente la cosa più accettabile, per quanto mai realmente trascinanti. Incommentabili in senso negativo le musiche, che a detta dei realizzatori sarebbero dovute essere un punto di forza del film.

Tecnicamente la pellicola alterna in modo confuso vari registri narrativi (dalla commedia grottesca, al melodramma, alla satira farsesca) non riuscendo mai a prendere una strada definita, dilungandosi in siparietti eccessivi e in dialoghi pochi convincenti. Volutamente kitsch (si spera!) nella satura fotografia digitale e nella caricata riaffermazione dei luoghi comuni più usuali sugli italiani, il film vive i momenti migliori in qualche riuscito duetto comico tra i vari protagonisti e soprattutto nei monologhi del grande Chevy Chase (che comunque non si capisce cosa c'entri con questo film), per poi però affossarsi in banalità sconcertanti e soprattutto in un altro capolavoro dell'assurdo sotto il punto di vista del doppiaggio. Ci si chiede infatti, dal primo all'ultimo minuto del film, con sgomento non indifferente, coma facciano (in un film girato in America e scritto in inglese e recitato per lo più da attori americani) napoletani, spagnoli e statunitensi a comunicare perfettamente nella nostra cara lingua. Ok che il cinema è il regno dei sogni e della fantasia, ma certe scelte di doppiaggio non possono non sembrare demenziali. Ma questa è una vecchia, irrisolta questione.