Recensione La casa del diavolo (2005)

C'è qualcosa di innegabilmente nuovo o rinnovato nell'estetica della violenza che permea il film di Rob Zombie, rendendolo sporco e malsano come nient'altro possa capitare di vedere attualmente.

I reietti del diavolo

La casa del diavolo(ma a noi piace l'originale The Devil's Rejects che rende davvero l'idea) è un film definitivo, estremo. Di sicuro uno dei pochi sequel in grado di annichilire totalmente il film precedente, sempre se vogliamo categorizzare i due film di Zombie come consecutivi. Distinzioni di poco conto. L'importante è che al secondo film abbiamo già un'idea forte su un autore e un elemento ulteriore per interpretare il suo esordio La casa dei 1000 corpi. Che era un film importante più per motivi teorici che sostanzali, seppur non privo di alcuni di quegli spunti che palpitano implacabili in questo sequel. Ma sostanzialmente era un film di rodaggio, derivativo e tutto sommato ludico. Qui siamo su altre strade, su territori sanguinolenti e definitivi (termine da ribadire), dove non si scherza. Probabilmente siamo davvero all'inferno, dove è lecito tagliare i ponti con tutto e tutti e con qualsiasi pratica cinefila post-modernista sempre comoda per alleggerire la sostanza. La violenza e il sangue non sono più un gioco da queste parti, è doveroso anticiparlo, prima di celebrarlo.

In primis, La casa del diavolo tradisce la sua appartenenza pura all'horror di cui celebra di certo la carica iconoclasta e la cruenza grafica, ma non i percorsi narrativi, che sono in grande equilibrio tra western e road-movie di inaudita crudeltà. Scelta che radica profondamente il film al terreno, permette l'umanizzazione dei reietti del titolo e lo tiene lontano da ogni tendenza al soprannaturale o all'esoterico racconto della follia. Ciò che si narra è la fuga di Otis (l'inquietante Bill Moseley) e di sua sorella Baby (la sadica e conturbante Sheri Moon) dall'assalto della polizia che ha portato all'arresto della madre(Leslie Easterbrook a sostituire l'insostituibile Karen Black). Per chi non sapesse da cosa scappa la famiglia Firefly, è necessario ricordare come questa sia dedita all'omicidio gratuito e seriale sulle orme di Non aprite quella porta e che è altresì composta anche da un padre clown, il Capitano Spaulding (un enorme Sid Haig) non meno fuori di testa. Sulle loro tracce, il deciso sceriffo Wydell, affamato di vendetta e pronto alla giustizia personale a qualsiasi costo.

Rob Zombie fa terra bruciata di tutto e tutti e si spinge oltre ogni confine, tratteggiando una famiglia di sadici serial killer con toni romantici e eroistici. Avanguardia sanguinaria di un'umanità senza valore, reietti del diavolo, appunto. Se la sostanza nerissima dell'assunto è anche troppo estrema nel tracciare un quadro nichilista che ha messo la morale fuori campo, ciò che sbalordisce è la potenza cinematografica assoluta che fa di Zombie, inaspettatamente e improvvisamente, uno dei registi più vivi, creativi e interessanti del contemporaneo. C'è qualcosa di innegabilmente nuovo o rinnovato (e quindi nuovo) nell'estetica della violenza che permea il film, rendendolo sporco e malsano come nient'altro possa capitare di vedere attualmente. Zombie guarda a Pechinpah, insiste in stranianti fermo immagini, ralenti epici, violenze psicologiche insostenibili e sperimentali connubi tra musica e immagini (un soundtrack da urlo, sia sotto il profilo delle canzoni, sia per ciò che concerne il commento sonoro ai momenti più efferati) per immergerci in un disagio che è progressivamente sempre più difficile scrollarsi di dosso. In questo senso i numerosi siparietti grotteschi che contornano il film - amplificati oltremodo dall'adattamento italiano - aiutano a prendere il fiato anche se rappresentano indubbiamente il punto debole di una meccanica espositiva dura e implacabile, all'interno della quale è possibile scorgere almeno un paio di sequenze di assoluta, inopinabile grandezza cinematografica. Welcome to hell!