Recensione La maschera di cera (2005)

Strutturato - in maniera fin troppo evidente - sul gioco di specchi e di riflessi tra coppie gemellari, La maschera di cera, prodotto da Joel Silver e Robert Zemeckis, si ispira all'omonimo film del 1953.

I gemelli dell'orrore

In un fast-food di Gainesville, cinque ragazzi si apprestano a partire alla volta di Baton Rouge per la finale del campionato di football del college. Dovrebbe essere un'occasione di divertimento, ma le tensioni e le problematiche che scorrono tra i componenti del gruppo appaiono, fin da subito, irrisolte. Carly (Elisha Cuthbert) deve risolvere le incomprensioni con il suo fidanzato Wade (Jared Padalecki, dalla serie tv Una mamma per amica) e con lo scontroso gemello Nick (Chad Michael Murray), una testa calda, appena uscito di prigione dopo aver rubato una macchina. Completano il quadro un amico di Nick, Dalton (Jon Abrahams), dotato dell'immancabile videocamera (retaggio di The Blair Witch project - Il mistero della strega di Blair), la migliore amica di Carly, Paige (l'improbabile, ma innocua Paris Hilton), che teme di essere incinta del suo ragazzo Blake (Robert Richard), troppo impegnato a pensare alla partita e al suo fuoristrada per accorgersi che qualcosa non va come dovrebbe.
Finiti per sbaglio in aperta campagna, dopo aver preso una scorciatoia, i ragazzi sono obbligati a passare la notte in tenda, accampandosi con le macchine in uno spiazzo erboso, dove ricevono la visita di un misterioso furgoncino che li spia dalla strada, puntando i fari verso di loro. Come se non bastasse, la mattina seguente i segnali nefasti sono ancora più numerosi e palesi: Dalton non trova più la sua videocamera, Wade ha stranamente la cinghia dell'automobile strappata e un fetido odore conduce il gruppo a una folla di carcasse di animali nascosta nel bosco. A occuparsene è un inquietante individuo, che si offre di accompagnare Carly e Wade all'officina più vicina, ad Ambrose, un minuscolo avamposto umano che non viene rivelato neppure dai navigatori satellitari.

Lasciati gli altri alla partita, Carly e Wade visitano la solitaria città, dominata dall'alto dal museo delle cere, una struttura imponente realizzata interamente con questo materiale (da qui il titolo originale The House of Wax) e occupata da sculture impressionanti per la loro aderenza alle fattezze umane.
I due fidanzati avranno modo di scoprire che a vivere in questo luogo fantasmatico sono soltanto due persone: Bob, il proprietario dell'officina, e Vincent, l'artista delle opere di cera (interpretati entrambi da Brian Van Holt). Il loro ambiguo rapporto e la loro vera natura rappresentano la chiave di svolta e il motivo scatenante del film, con il quale tutti i personaggi dovranno confrontarsi nel corso della narrazione. Lo spettatore collegherà presto i due abitanti di Ambrose ai gemelli immortalati nel prologo della pellicola, nel quale lo sguardo parziale e spietato della cinepresa mostra due genitori violenti e prevaricatori, dediti a seviziare uno dei due bambini sotto gli occhi dell'altro, perché giudicato cattivo. Come d'altro canto è successo a Carly e Nick: due gemelli, identica diversità caratteriale (o almeno presunta tale), opposto trattamento da parte dei genitori. È la solita vecchia storia che si ripete: chi viene tacciato di cattiveria, poi ne diventa suo malgrado un emblema.

Strutturato - in maniera fin troppo evidente - sul gioco di specchi e di riflessi tra coppie gemellari, La maschera di cera, prodotto da Joel Silvere Robert Zemeckis, si ispira all'omonimo film del 1953, diretto da André de Toth e girato originariamente in 3D, a sua volta remake dell'opera di Michael Curtiz, La maschera di cera, risalente al 1933: un film-spartiacque, che segnò la fine dell'horror degli anni Trenta. L'odierna pellicola ambisce a recuperarne le atmosfere oscuramente macabre, contaminandole con personaggi ed esigenze narrative più consone ai teenager movie, agli horror sfacciatamente rivolti al target adolescenziale, nonostante in questo caso i protagonisti abbiano superato, anche se di poco, la soglia dei diciotto anni.

Non privo di una certa dose di cinefilia - la casa in collina che richiama Psycho, la proiezione nel cinema del paese di Che fine ha fatto Baby Jane? - il film conserva nello spettacolare finale, pompato di effetti speciali, e nella creazione ancestrale dell'uomo-scultura, i suoi momenti migliori. Peccato che alcuni temi siano stati semplicemente abbozzati dalla messa in scena, come il gioco vittima-carnefice tra fratelli - non a caso argomento centrale del film di Aldrich, basato sul rapporto morboso tra Bette Davise Joan Crawford, ed emergano in ultima istanza profonde ellissi nel racconto e nello sviluppo dei personaggi - soprattutto di quelli oscuri - che tolgono respiro al discorso filmico, già appiattito dalla bidimensionalità dei protagonisti - nonché dei loro interpreti - e dalla prevedibilità del racconto, eccessivamente disseminato di echi e dejà-vu.