Recensione Pop Skull (2007)

Un horror lisergico, sperimentale e assolutamente libero, che lascia ben sperare per un giovane regista di cui si potrebbe sentir ancora parlare.

Horror trip

Chi, in questa seconda edizione della Festa del Cinema di Roma, cercava qualche brivido (ben lungi dall'averlo trovato nell'ultima deprimente prova di Dario Argento) è stato accontentato, un po' a sorpresa, da questo Pop Skull, produzione ultraindipendente americana (solo 3000 dollari di budget!) che occhieggia alla videoarte e all'ultimo David Lynch.
Presentato nella sezione Extra della manifestazione romana, il film dell'esordiente Adam Wingard (al suo attivo già un pugno di cortometraggi) è un horror virato decisamente alla psichedelia, una specie di bad trip allucinogeno che si apre con un avviso (per una volta da prendere sul serio) che ne sconsiglia la visione a chi soffre di epilessia. La storia è incentrata sulle vicende di Daniel, un giovane entrato in depressione dopo essere stato lasciato dalla fidanzata. Daniel, che da allora cerca rifugio negli psicofarmaci, che assume in quantità industriali, ha iniziato ad avere anche delle visioni: fantasmi, entità viste, intraviste o forse immaginate, impalpabili presenze che si muovono ai margini del campo visivo. Daniel non è più certo della realtà o meno di ciò che vede: ma quando il ragazzo crede di aver assistito a un omicidio, la situazione si complica ancora di più.

Wingard, che ha girato il film interamente in digitale, si è ben guardato dal dare ad esso una struttura da horror "classico": la narrazione è al contrario frammentata in una sorta di montaggio alternato schizzato e senza soluzione di continuità, in cui presente e passato si integrano a visioni e dolorosi flashback sulla love story del protagonista, ossessione sempre presente lungo tutti gli 86 minuti di durata del film. Le sequenze che devono evocare spavento (ce ne sono, e di molto efficaci) sono sempre inserite in un contesto di distorsione della realtà, di percezioni alterate che comportano la sovrapposizione indiscriminata di realtà e sogno, di concretezza e immaterialità. Veri e propri bombardamenti audiovisivi di luci, suoni e colori portano lo spettatore fin dentro la mente deragliata del protagonista, alternandosi a improvvise accelerazioni orrorifiche, di quelle che, negli incubi, fanno pregare per un risveglio che tuttavia non arriva. Su tutto, un senso di straniata ma avvertibilissima dolcezza, nell'ossessione del giovane per la compagna perduta, e nell'amicizia altrettanto, dolorosamente, reale del protagonista con il compagno di bevute Jeff, che non riesce a riportarlo nel mondo del tangibile.

La regia deve molto al Lynch più recente, quello più libero e ormai affrancato da qualsiasi "laccio" narrativo; nella costruzione di alcune sequenze e nella gestione dello spazio filmico, tuttavia, si avverte anche un'influenza delle migliori ghost story orientali, quelle che tanto ci impressionavano fino a qualche anno fa. La fotografia riesce a tirar fuori il meglio dal digitale "povero" del film, gestendo bene gli accesi cromatismi e gli sprofondamenti dark che il soggetto richiede. Una menzione va fatta anche per la colonna sonora, che mescola sapientemente l'elettronica con un rock alternativo in cui predominano stralunate e dolcissime ballate.
Non si può che guardare con interesse a un horror sperimentale e assolutamente libero come questo: certo non lo vedremo mai nei circuiti ufficiali, ma il risultato lascia ben sperare per un giovane regista che, almeno per quanto abbiamo visto qui, sembra avere molte frecce al suo arco. Restiamo sintonizzati.

Movieplayer.it

3.0/5