Festival di Roma, Michael Rowe presenta Manto Acuìfero

Arriva dal Messico il film in concorso che racconta la storia di una bambina turbata dal divorzio dei genitori; "La separazione è un cambiamento brutale per un bambino ed è assurdo che la si presenti a loro come se ci guadagnassero qualcosa. Le conseguenze per loro sono profonde e dannose. ", ha raccontato il regista australiano nell'incontro con la stampa.

Vincitore della Camera d'Or a Cannes nel 2010 per Año bisiesto, l'australiano Michael Rowe presenta in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma il secondo capitolo di una trilogia dedicata alla solitudine; Manto Acuifero racconta la storia di Caro, una bimba di sei anni profondamente turbata dal divorzio dei genitori e dalla nuova relazione della madre (Tania Arredondo) con un uomo incapace di instaurare un vero rapporto con la piccola. Ancora legata alla figura del papà, che custodisce nelle foto nascoste accuratamente sotto al cuscino, Caro, la bravissima Zaili Sofia Macias, vive in simbiosi con la natura e trasforma il giardino della nuova casa in un luogo magico, accessibile solo a lei. Una sfuriata del patrigno, però, terrorizzato da un possibile ritorno del padre della bambina, infrangerà per sempre il suo delicato equilibrio, portandola a distruggere qualcosa di prezioso.

Michael, com'è nato il progetto di questo film e qual è stato il suo modo di lavorare con la bambina?
La storia inizia il giorno in cui ho letto all'aeroporto di Berlino un romanzo di Tim Wilton; ho pianto per quarantacinque minuti di film e a quel punto ho capito che avrei dovuto girare il film. Quanto al lavoro con Sofia, ho cercato di mantenere inalterata la sua freschezza. Non abbiamo fatto prove con lei. Qualche trucchetto l'ho usato, lo ammetto.

Quale?
Non ho voluto farla incontrare con il suo "patrigno", Arnoldo Picazzo. perché volevo rendere anche sullo schermo la loro distanza. Alfonso non è stato affatto tenero con lei e alla fine del film lei non lo sopportava per niente.

E' stata davvero molto brava...
Credo che lei fosse cosciente sin dall'inizio che il peso del film poggiasse tutto sulle sue spalle, ma è stata bravissima sin dall'inizio e molto, molto responsabile, quasi una piccola adulta. Ritengo che lei sia una grande attrice con un grande talento; avrebbe potuto fare la stessa scena cinque volte con la stessa intonazione e poi attuare in un attimo la modifica che le avevo chiesto. E poi si è lamentata della stanchezza solo una volta, quando teneramente mi disse di non essere in grado di studiare le battute per il giorno dopo.

C'è un messaggio che vuol lanciare con il suo film, ad esempio dedicare ai bambini l'attenzione che meritano?
Mandare dei messaggi non è compito del cinema, ma se dovessi dire che tipo di riflessione mi interessava di più, allora direi che è quella relativa alla facilità con cui si prende in considerazione il divorzio. La cultura familiare tradizionale in America Latina è ormai in declino, andiamo verso un modello anglosassone; ci sono tanti divorzi e tanti padri e madri che crescono i loro figli da soli. Io penso che si divorzi con troppa facilità e che i genitori paghino gli psicologi per sentirsi dire quello che vogliono, e cioè che i bambini riusciranno ad adattarsi senza problemi e che non risentiranno della separazione dei genitori. Non è così, il divorzio dei genitori è un cambiamento brutale per un bambino ed è assurdo che lo si presenti a loro come se ci guadagnassero qualcosa. Le conseguenze per loro sono profonde e dannose.

E' una presa di posizione molto pessimista la sua e in effetti nel film i genitori di Caro sembrano essere completamente distanti dalla bambina, quasi non avessero coscienza dei principi basilari della psicologia infantile. E' così? Dipende dal contesto culturale messicano?
Sì, esatto. Il Messico vive ancora immerso in un universo religioso e magico e me ne sono reso conto appena sono arrivato vent'anni fa. Ho impiegato dieci anni per capirci qualcosa. Non so, è come se Freud e Jung non fossero mai arrivati qui. Forse è per questo che ho lavorato ad una trilogia messicana sulla solitudine, per fare un ritratto quanto più fedele possibile delle differenze tra questi due universi.

E' stata una tua scelta voluta quella di rinunciare alla colonna sonora?
Sì, assolutamente. Un film non ha bisogno di una musica che sottolinei le emozioni dei personaggi se ha una sceneggiatura ben strutturata e delle grandi interpretazioni da parte degli attori. Lo stesso discorso vale anche per i movimenti di macchina; nel 95 % dei casi si fanno per seguire un attore, ed è assurdo, oppure per enfatizzare delle emozioni che il film dovrebbe essere in grado di suscitare da solo. Ecco certi dolly mi sembrano una manipolazione del pubblico, una mancanza di rispetto.

Considerato l'amore di Caro per gli insetti, verrebbe da dire che il suo è quasi un cinema entomologico...
Sì, io cerco di vedere gli esseri umani con l'obiettività e il rigore di un documentario; ma il mio è un realismo emotivo, perché ciò che conta di più è l'universo interno dei personaggi.

Quanto è importante il rapporto della bambina con la natura?
E' essenziale. La bimba vive in questi due mondi; c'è la casa con la TV e c'è il giardino, dove lei si sente felice. I bambini imparano a contatto con la natura, perché la natura gli dà anche la libertà di essere soli. C'è una solitudine necessaria che serve per rapportarsi con l'universo e questo a Città del Messico, con 23 milioni di persone, purtroppo non è possibile. Ed è un'assenza triste.