Recensione Riunione di famiglia (2007)

L'interiorizzazione del dolore e l'agire che ne scaturisce, in Riunione di famiglia, è molto più misurato, per certi versi consolatorio rispetto a quanto visto in Festen. Si perde un pò di quella dura freschezza che era infusa nel film che portò Vinterberg a tentare la fortuna all'estero.

Festa in famiglia, atto secondo

Il ritorno. Questo il tema centrale di tutta una carriera. Thomas Vinterberg, autore danese tra i più importanti in patria e all'estero, tenta di riunificare e riordinare tutto quel che la propria vita ha passato e la propria filmografia ha affrontato proprio a partire dal tema della ricomposizione degli affetti, del ritorno alle cose e agli effetti di un passato non più replicabile.
Tutta la storia cinematografica di Vinterberg ruota intorno allo stesso disagio: quello di chi, rincontrandosi dopo anni, vede stratificati tra sè e l'altro, una volta familiare, una miriade di ricordi, di rancori, di incomprensioni, di giudizi rimasti in sospeso.

Parte proprio da qui Riunione di famiglia, che nel suo titolo originale porta in sè tutto quel che è l'uomo Vinterberg, ancor prima che il regista. When a Man Comes Home è infatti un titolo significativo per la prima pellicola girata e prodotta in patria dal regista dopo dieci anni.
Prima di andarsene, in Danimarca aveva girato Festen, il film della notorietà, quello che lo portò a conquistare un ambito premio a Cannes. E lì pose le basi per la propria poetica, nell'inquadramento di un'asciutta, surreale, dirompente rimpatriata di un ampio nucleo familiare che era stato separato da lungo tempo.
In Riunione di famiglia della traduzione italiana è un richiamo proprio al sottotitolo di Festen, che recitava Festa in famiglia.

E di una festa si parla anche in questa pellicola. La festa che un piccolo paesino rurale danese sta organizzando per il 750° anno dalla propria fondazione, celebrazione per la quale in paese è atteso Karl Kristian Schmidt, famosissimo cantante lirico, che nato e vissuto gli anni della propria infanzia proprio nel piccolo borgo. Alla storia del suo ritorno si incrocia quella di Sebastian, giovane uomo che sta attraversando una profonda crisi sentimentale che aggrava la sua balbuzie, maturata da fin dai tempi in cui il padre morì, quando lui era piccolissimo, investito da un treno, e la madre iniziò a convivere con una donna. Queste, almeno, le convinzioni del giovane Sebastian, fin quando l'irrompere di Schmidt nell'albergo in cui lavora rivoluzionerà la sua vita.

Se in Festen si trattava di un ricongiungimento più "borghese", segnato da tempi di separazione più limitati, e che andava a toccare le corde di una famiglia formalmente sempre rimasta unita, in Riunione di famiglia è il ritrovarsi inconsapevole di un nucleo familiare caratterizzato da altrettanti poli di attrazione, rimasto separato e slegato per un lunghissimo lasso di tempo.
Ma se nel primo caso le conseguenze di questo ritrovarsi forzato erano feroci e si manifestavano in un attimo di lucida follia, l'interiorizzazione del dolore e l'agire che ne scaturisce in Riunione di famiglia è molto più misurato, per certi versi consolatorio.
Si perde un pò di quella dura freschezza che era infusa nel film che portò Vinterberg a tentare la fortuna all'estero, ma è uno smarrimento che non sembra doloroso, che appare dettato dalla necessità narrativa e creativa dell'autore.

Tanto che i punti di contatto, la cifra creativa delle due pellicole - al netto del Dogma95, tema che sarebbe qui troppo lungo da affrontare, salvo accennare che per Riunione di famiglia si potrebbe quasi parlare de "il Dogma senza il Dogma" - sono innumerevoli, riassumibili nella figura di Mogens Rukov, attore feticcio del regista danese e presente con un ruolo di primaria importanza in entrambi i film.
Ma anche il forte contrasto tra ruralità e mondo cittadino (quasi sempre è quest'ultimo a fare i conti con la campagna nelle opre dell'autore), l'esilarante vena ironica che fa da sfondo a tutte le scene. La mano di Vinterberg, insomma, c'è, e si fa ben vedere.
Rimane solo la domanda, anche alla luce dei recenti sviluppi del cinema di Susanne Bier, se gli autori danesi stiano un pò perdendo quel tratto di originalità che è da una ventina d'anni il loro punto di forza, tendendo ad "occidentalizzarsi" nel modo ultimamente pacificatore e consolatorio di interpretare il cinema. Sperando che non sia così, non resta altro che godersi l'ultima grande regia di un autore che, nel bene o nel male, ha senz'altro ancora qualcosa da dire.