Recensione Iri (2008)

Il film di Zhang Lu, non privo di fascino, non riesce tuttavia a restituire un quadro credibile di una comunità scossa per un evento di 30 anni prima, né a penetrare fino in fondo l'animo della sua protagonista.

Ferite insanabili

Città di Iri, Corea del Sud, 1977: l'accidentale esplosione di un convoglio merci dilania la stazione del piccolo centro abitato, causando decine di morti e centinaia di feriti, e risultando in uno dei più tragici incidenti ferroviari di tutta la storia della Corea. 2007: mentre nella cittadina si celebra il memoriale della tragedia, la giovane Jin-seo vive con suo fratello, lavorando come donna delle pulizie in una scuola di lingue e dando una mano nell'ospizio per anziani in cui è impiegato il fratello. La ragazza soffre di un handicap mentale procuratole dall'esplosione di 30 anni prima, in cui fu coinvolta sua madre ancora incinta: a parte suo fratello e un immigrato iracheno, gli uomini tendono ad approfittarsi della sua ingenuità, sullo sfondo di una città che sta ancora scontando i traumi di quel drammatico evento.

Ha il suo indubbio fascino, il film di Zhang Lu, regista cinese trapiantato in Corea già avvezzo alle platee dei grandi festival (il suo precedente Desert Dream fu presentato al Festival di Berlino due anni fa): l'attenta composizione di inquadrature quasi sempre statiche, risultato di una concezione quasi pittorica dell'immagine che deve molto al cinema di Tsai Ming Lliang, il dolente spaccato di una cittadina ancora scossa nelle sue fondamenta per un evento di tre decenni prima, l'intensità di un personaggio con il quale si riesce subito a empatizzare, merito anche dell'ottima prova della protagonista Yun Jin-seo, sono tutti elementi che mettono nella migliore predisposizione lo spettatore più attento alle dense atmosfere di certa produzione asiatica contemporanea. Il film di Zhang, però, nel sovrapporre la vicenda della protagonista a quella più generale di una comunità lacerata e mai del tutto ricostruita, finisce per mancare il bersaglio, girando su se stesso senza riuscire a cogliere l'essenza dell'una e dell'altra componente. La regia sembra cercare nello sguardo della giovane Jin-seo le ragioni di un dolore e di una solitudine che sembrano sempre sfuggire, mentre lo squallore (tutto maschile) che la circonda pare eccessivamente manierato e poco credibile.

I quadretti d'insieme offerti dalla macchina da presa di Zhang, le strade notturne attraversate dal taxi del fratello della protagonista, i totali sui campi ai margini della città con i fuochi d'artificio che esplodono (sogno di una libertà impossibile da raggiungere?) gli interni dell'ospizio e della scuola che la ragazza "riempie" con la sua presenza: tutto portato all'occhio dello spettatore con una cura indubbia, ma latitante di sostanza, a un passo dal manierismo. La tragedia subita dalla città nel passato, che ci si aspetta sia elemento portante del film, resta in fondo più un mero enunciato che un evento tangibile, la cui influenza si faccia sentire nel corso della storia. Così, se si riesce a partecipare, almeno in parte, alle vicende che coinvolgono Jin-seo, non si riesce a cogliere del tutto l'essenza del suo dramma, meno ancora quella del dramma collettivo della città. La sensazione, alla fine della proiezione, è dunque quella di un'esperienza incompleta, non senza fascino, ma di cui non si riesce alla fin fine a cogliere il fulcro.

Movieplayer.it

3.0/5