Recensione The Woman in Black (2012)

Smessa la maschera composta di occhiali e cicatrice saettante, Daniel Radcliffe si presta a indossare quella di un giovane padre vittoriano con tanto di barba e longilineità britannica alle prese con fantasmi dispensatori di morte.

Fantasmi dal passato

Un villaggio ostile nel cuore dell'Inghilterra vittoriana e il mistero che aleggia intorno ad una villa diroccata: questa è l'atmosfera che accoglie Arthur Kipps al suo arrivo a Crythin Gifford. Giovane avvocato londinese chiamato a risolvere le questioni legali di Eal Marsh House a seguito della morte della sua proprietaria, non comprende le motivazioni dell'evidente sospetto dimostrato dagli abitanti, né l'orrore che invade i loro sguardi al solo nominare la tenuta. Situata al termine di una sottile linea di terra sommersa dalle maree e trasformata in palude, la casa sembra stendere sul villaggio un'ombra opprimente che odora di morte e dolore. A essere minacciati sono i più fragili, gli animi semplici e manipolabili dei bambini, le cui morti incomprensibili hanno segnato irrimediabilmente la storia della cittadina. Così, quando Arthur arriva a risvegliare involontariamente il sonno di un mostro dalle fattezze femminili, scopre quanto debole sia la forza della razionalità di fronte all'inaspettata potenza di un risentimento immortale. Chiuso nelle stanze buie di Eal Marsh House, ricompone faticosamente gli eventi di un passato scoprendo i particolari di una storia fatta di perdite e soprusi, vittime e aguzzini. Un percorso che, costellato da eventi inspiegabili, lo costringe ad affrontare la furia di una donna in nero, fantasma senza pietà di una madre privata della propria creatura.


Con più di dieci anni di set alle spalle e il successo teatrale di Equus, Daniel Radcliffe è tutt'altro che un esordiente eppure, nonostante tanta esperienza, la sua performance in The Woman in Black sembra rappresentare più un inizio che l'ennesimo passo di una già ben avviata carriera. Il problema è da rintracciarsi sicuramente nella partecipazione alla lunga saga potteriana e, in modo particolare, nella rappresentazione di un personaggio così fortemente radicato nell'immaginario collettivo da essere sovrapposto al suo stesso interprete. Indubbiamente il perfetto Herry Potter ha aggiunto un tocco d'inaspettata magia alla vita del suo giovane interprete ma, allo stesso tempo, ha costretto un ragazzino trasformato precocemente in star a uno sforzo titanico per affermare l'individualità dell'attore e per sostenere la possibile delusione di un pubblico incapace di riconoscerlo fuori dai confini di Hogwarts. Un rischio che Radcliffe ha cercato di valutare e misurare attentamente partecipando al progetto di The Woman in Black, soft horror dalle forme fin troppo classiche. Desideroso di dar spazio alle sue ambizioni artistiche ma comunque ancora timoroso di tentare una via completamente diversa, sceglie di muoversi all'interno di un ambiente narrativo soprannaturale non completamente sconosciuto. In questo modo, smessa la maschera composta di occhiali e cicatrice saettante, l'attore si presta a indossare quella di un giovane padre vittoriano con tanto di barba e longilineità britannica alle prese con fantasmi dispensatori di morte.

Un esperimento che, seppur capace di dare spazio a un'interpretazione credibile, mostra con quanto timore l'ormai ex enfant prodige del cinema internazionale si stia gradualmente allontanando dal suo passato. Ispirato all'omonimo successo letterario di Susan Hill del 1982, il film ripropone così i caratteri ambientali e narrativi di una ghost story chiaramente figlia di suggestioni che in Edgar Allan Poe riconoscono l'elemento ispirante. Abitazioni isolate, stanze avvolte in una minacciosa penombra, silenzi interrotti improvvisamente da rumori rivelatori di una presenza invisibile, volti stravolti dal dolore, ombre sinistre e gli sguardi vitrei di bambole usurate dal tempo; questo è l'insieme di classiche ovvietà assemblate dal regista James Watkins per il primo adattamento cinematografico di un'opera visibilmente anacronistica. Un risultato finale da non addebitare esclusivamente a una regia in gran parte priva di personalità, quanto alla "maturità" della materia originale. Il romanzo della Hill ha trent'anni e questo particolare si nota fin troppo chiaramente, soprattutto se inserito all'interno di un genere che nel tempo ha affrontato molte variazioni e alcune involuzioni. E per questo che, seppur apprezzabile da parte della storica casa di produzione Hammer la scelta di evitare un "body count horror" per il suo rilancio, il film soffre evidentemente di una sorta d'ingenuità narrativa che toppo affida la costruzione del pathos agli echi di lontani scricchiolii vittoriani.

Movieplayer.it

2.0/5