Recensione Submarino (2010)

Thomas Vinterberg procede, per strappi e provocazioni, fedele al suo cinema ipercerebrale fatto di un'umanità miserrima e volutamente sgradevole e di eccessi drammatici, il cui accumulo appare troppo spesso gratuito e costruito ad arte per instaurare il disagio nello spettatore

Espiare il peccato originale

Due giovani fratelli vivono la loro pre-adolescenza abbandonati a loro stessi, vittime di una madre assente e alcolizzata, tanto da lasciargli il completo affidamento di un neonato, che i due nutrono e accudiscono amorevolmente ma incoscientemente. Dopo un pomeriggio di bisbocce i due si svegliano e scoprono che il piccolo è morto nel letto dove l'avevano lasciato. Qualche anno più tardi i due fratelli sono cresciuti portando dentro il dolore di questa perdita. Nick, il più grande, è diventato un uomo aggressivo e solitario, incapace di rapportarsi con le donne e ossessionato dal passato, mentre il fratello minore rifugia le sue angosce nell'eroina e deve fronteggiare una paternità senza moglie e senza lavoro, incapace di dare al figlio la minima stabilità necessaria.

Thomas Vinterberg procede, per strappi e provocazioni, fedele al suo cinema ipercerebrale fatto di un'umanità miserrima e volutamente sgradevole e di eccessi drammatici, il cui accumulo appare troppo spesso gratuito e costruito ad arte per instaurare il disagio nello spettatore. Con Submarino entra col piede pesante in una famiglia miserabile, vittima di un dramma giovanile, intersecando la storia dei due fratelli in una pretestuosa costruzione narrativa a incastri, in cui tutto finisce per combaciare al termine del film. Ma a mancare è il coinvolgimento emotivo. Se la cifra infatti è un certo naturalismo tipico del cinema danese, si fa fatica a entrare nella psicologia dei personaggi e a coglierne il significato delle loro azioni: dalla scelta di un padre tossicomane e vedovo di mantenere il suo unico figlio spacciando eroina, a quella del fratello maggiore di accollarsi un omicidio e di perdere una mano per cancrena da trascurata infezione.

Probabile che l'intento dell'autore sia il voler far discutere sui risultati psicologici e comportamentali di un'educazione disfunzionale, con una madre alcolizzata che lascia i due figli in balia di loro stessi, affidandogli perfino un neonato, ma al di là del determinismo discutibile causato dal peccato originale che scatena le vicende, rimane sempre la sensazione che questo tipo di cinema sia troppo algido e abbia esaurito la sua carica provocatoria, che continua a affascinare i selezionatori dei festival ma anche a generare una visione passiva delle vicende, da parte di un pubblico che le percepisce troppo "distanti" per essere interiorizzate.