Recensione Exils (2004)

Exils è un film fisico, profuma di sudore, indaga ogni centimetro di pelle e sottolinea con gioia la sensualità della carne, ma è anche un film spirituale, conduce per mano oltre la superficie delle cose, in un luogo invisibile dove tutti dovremo far tappa prima o poi per diventare veramente padroni di noi stessi.

Elogio del corpo e dello spirito

Exils è un film fisico, profuma di sudore, indaga ogni centimetro di pelle e sottolinea con gioia la sensualità della carne, ma è anche un film spirituale, conduce per mano oltre la superficie delle cose, in un luogo invisibile dove tutti dovremo far tappa prima o poi per diventare veramente padroni di noi stessi.
Zano (Romain Duris) e Naima (una conturbante Lubna Azabal) sono tronchi abbattuti, fatti di morbida pelle che rischia di marcire, mutilati alla base così da essere privi delle radici che custodiscono linfa vitale, sanguinanti dolore dalle ferite malamente cicatrizzate che testimoniano lacerazioni taciute.

Un dolore inconsapevole, velato da sorrisi distratti che saziano la noia che pretende la modernità e affamano il cuore. I loro corpi nudi e svogliati si presentano immediatamente allo spettatore ovattati da una musica che non li abbandonerà mai, che li spingerà al viaggio e come un filo di Arianna dai colori sempre nuovi li condurrà fino all'origine di ogni cosa. Lo sguardo della macchina è puntato per pochi istanti sui tetti di Parigi, un asilo dove giocare e diventare uomini, ma lontano migliaia di chilometri dal grembo che li ha partoriti. E' in quella stasi infinita, che come edera sta avvolgendo ogni angolo di corteccia, che lo spirito si ribella e chiede a gran voce di essere ritrovato, impantanato nell'utero al centro del mondo. La voce esplode dalle casse, musica urbana che infiamma di passione un desiderio appena abbozzato, e il viaggio comincia. Un esilio diverso, per la prima volta al rovescio rispetto ai milioni già raccontati, che parte dalla Francia e attraverso la Spagna e il Mediterraneo arriva fino in Algeria, per esplorare quella terra che in passato i loro genitori sono stati costretti ad abbandonare e per capire come si disegnino i contorni delle loro identità.

E' il corpo a dominare la scena, con le sue pulsioni, la sua danza, le sue debolezze. Tony Gatlif ne celebra il trionfo senza alcuna inibizione, lo esplora nel dettaglio, coglie gli sguardi e le paure che lo animano, lo ritrae forte e fiero nel suo intimo, fragile e indifeso di fronte all'infinito e nell'incontro con altri corpi.
Exils è un film d'incontri: quello appassionato tra uomo e natura, comunione celebrata da mani che scavano nella terra, pioggia che cade sulle teste e bocche che fanno l'amore con le pesche; quello tra genti diverse che trovano nella gioia della musica un punto di contatto che li apre all'abbraccio e alla fiducia nell'altro; quello con il proprio passato che bagna gli occhi di gioia o di terrore incontrollabile.

Più che l'amore, ad unire i due giovani in questo viaggio è la loro profonda diversità. Lui ha occhi curiosi, si lascia ubriacare dalla bellezza dei luoghi che tocca, protegge e coccola con grande tenerezza la sua compagna, mostra entusiasmo per ogni piccola scoperta e quando finalmente apre la scatola della vita, trovandoci dentro le foto ingiallite della sua famiglia, le lacrime bagnano le sbarre della prigione dove il presente l'ha rinchiuso e la libertà diventa una mano tesa all'universo. Lei ha occhi vitrei, si lascia vivere senza mordere la vita, prende dagli altri solo l'essenziale ed è attenta unicamente al proprio piacere, pronta a tradire perché cieca non vede la luce abbagliante di chi gli sta accanto. Eppure l'angoscia che la tormenta ne sottolinea la grazia. Zano e Naima camminano insieme, avvolti dalle note che ossessive non smettono un attimo di riempire un silenzio che fa paura, mentre il paesaggio cambia rapidamente e fa sfoggio di un'impensabile varietà di colori. I due si scoprono, si violentano, si perdonano e, dopo aver incontrato e vissuto persone, culture e suoni differenti, arrivano infine ad Algeri, facendosi strada in mezzo a una processione di esseri umani che va nel senso inverso, gente con valigie cariche di sogni già sgualciti che corre lenta verso l'ignoto, il cui fascino è comunque più grande della povertà che la opprime, mentre sullo sfondo il fresco terremoto ha inclinato le case lasciando i segni apocalittici del suo passaggio.

I due giovani si metteranno a nudo, liberandosi finalmente dei propri fantasmi, grazie a una confraternita sufi (il sufismo è la componente mistica dell'Islam) che li accoglierà facendo scoprire loro il piacere della condivisione e li guarirà ospitandoli in quel rito catartico che è la trance. E' una scena lunghissima ed emozionante, che può coinvolgere o infastidire, ma che non lascia indifferenti. E' l'acme di un film bello ed appassionante, caratterizzato da una splendida fotografia, dal ruolo fondamentale di una musica diegetica che sottotitola in abiti diversi ogni stato d'animo, da una regia precisa che trasforma inquadrature aperte in fulgidi affreschi del mondo nel ventunesimo secolo.
Un film da vedere e da far vedere, perché tutti noi siamo un po' clandestini nella caducità di un presente che contrabbanda l'integrazionismo, senza riuscire però a nascondere la discriminazione, che continua ad essere un cancro difficilmente asportabile.