Recensione Last Scene (2002)

Con questa sua ultima (per poco) opera, Hideo Nakata si cimenta con il melodramma: genere difficile, ma che non propriamente "nuovo" per il regista, che con "Dark Water" aveva già creato una sorta di melò-horror.

Elegia del cinema perduto

Con questa sua ultima opera (che resterà tale ancora per poco: si avvicina infatti sempre più l'uscita dell'esordio hollywoodiano The Ring 2), Hideo Nakata abbandona momentaneamente l'horror, e soprattutto le atmosfere inquietanti e ambigue che avevano caratterizzato anche i suoi film non direttamente riconducibili al genere (vedi il noir Chaos), per cimentarsi con un genere difficile, ma che da sempre rappresenta una "sfida" per i grandi cineasti di tutte le latitudini: il melodramma. Un "esordio" che è tale solo all'apparenza, a dire il vero: chi ha visto Dark Water, infatti, non potrà che concordare nel ritenere quella pellicola un vero e proprio melò-horror, in cui sotto l'aspetto di una classica ghost story erano già presenti tutti gli stilemi del genere, oltre a una grande padronanza degli strumenti che generano coinvolgimento e a un controllo pressoché perfetto sulle emozioni dello spettatore.

Questo Last scene, dunque, è un film tutt'altro che fuori registro per Nakata: scegliendo (non a caso) il mondo del cinema come sfondo, il regista ci narra la storia di un divo nipponico degli anni '60, il cui astro sta tramontando a causa del potere sempre maggiore della televisione. Alcolizzato e psicologicamente instabile, abbandonato dalla sua "spalla" di sempre sul set, l'uomo riceve il colpo definitivo dalla morte della moglie in un incidente stradale. Più di tre decenni dopo, lo ritroviamo, vecchio e malato, in un piccolo ruolo in un film di serie B, dove deve sostituire un caratterista che ha dato forfait. Ma il mondo del cinema è definitivamente cambiato, in quei tre decenni, e il protagonista se ne accorgerà presto suo malgrado: l'unica persona che riuscirà a comprenderlo, e col quale instaurerà un rapporto che gioverà a entrambi, sarà una giovane assistente al trucco, a sua volta sfiduciata dal sistema oligarchico che regna nell'industria cinematografica.
Affidandosi soprattutto alla recitazione dell'anziano protagonista (contraltare di quella nevrotica e sgradevole del suo alter ego giovane) e della ragazza, giocando sugli intensi primi piani e su dialoghi mai scontati (che non escludono il "non detto") tra i due, Nakata dirige un film semplice e coinvolgente. Quello che trapela dalla storia, ma soprattutto da come viene narrata, sono una passione e un amore autentici per un mondo malato, corrotto e alla deriva quanto si vuole, ma che resta pur sempre inevitabilmente il proprio, e dal quale non si può sfuggire. Una passione che il vecchio protagonista riesce a (ri)trasmettere alla giovane sfiduciata, conscio del tempo da lui inevitabilmente perduto, ma anche spinto a sua volta a giocare la sua parte fino alla fine, sia pure in una scena da cinque minuti in un film di quart'ordine. Concetti che il regista trasmette con una regia estremamente controllata, mai urlata o fuori dalle righe, tutta giocata su un senso di sottile rimpianto (ben esplicitato dai flashback in cui il protagonista ricorda i suoi glory days, in cui la fotografia assume i toni marrone-sbiadito di un filmino-amarcord) alternato all'angoscia per il presente, squallido, incerto e dominato da personaggi di plastica, ma comunque da vivere. E, se il finale può apparire convenzionale e sbilanciato sul versante della "concessione" allo spettatore (ma, a parere di chi scrive, dagli intenti fin troppo chiari nella sua palese prevedibilità), ciò non può comunque cancellare l'encomiabile equilibrio che Nakata è riuscito a mantenere per tutta la durata del film.

Un'altra prova positiva per il regista nipponico, quindi, che si dimostra sempre più autore a tutto tondo, di certo da non identificare sbrigativamente con il genere a cui ha pur dato un contributo fondamentale. Si spera solo che, per una volta, dal "match" che sta per iniziare con Hollywood, il nostro possa uscire vincitore o quantomeno con un pareggio, come è stato per il protagonista di questo film, nella sfida con un'industria che non gli apparteneva più. E' credere alle favole, questo? Può darsi, ma la visione di un film così, per una volta, rende meglio disposti; e poi, non dimentichiamocelo, esercitare il diritto alla speranza non costa niente.

Movieplayer.it

4.0/5