Recensione Simon Konianski (2009)

Dal regista Micha Wald 'Simon Konianski', uno spassoso road movie tra il Belgio e la Polonia in compagnia di una sgangherata famiglia di ebrei. Recupero picaresco della memoria e divertente melò familiare.

Ebrei sull'orlo di una crisi di nervi

Protesi del suo divertente cortometraggio Alice et moi (2004), che ha fatto incetta di premi in giro per il mondo e per i festival, Micha Wald, lanciato al 60esimo Festival di Cannes, dirige un'opera che cattura subito l'attenzione: Simon Konianski è uno spassoso road movie tra il Belgio e la Polonia in compagnia di una sgangherata famiglia di ebrei. E come ogni viaggio, cinematografico e non solo, il trip si sdoppia presto in un'esperienza terapeutica, cura necessaria ma non sufficiente per certi tic e certe nevrosi messe in scena con moderna comicità slapstick.

Simon è poco più che trentenne, ma è un Peter Pan con gli occhialoni, la laurea in Filosofia e nemmeno l'ombra di un lavoro, con un figlio piccolino che gli somiglia incredibilmente e una moglie con la quale è a un passo dalla separazione. Per l'emergenza della propria precarietà decide di trasferirsi momentaneamente a casa di suo padre Ernest, attempato ebreo praticante con il quale non va decisamene d'accordo. La morte di Ernest rappresenterà per Simon e per il figlioletto un importante momento di conoscenza e di scoperte delle radici polacche, perché le ultime volontà del signor Konianski sono state ricevere la sepoltura nella tanto ricordata Yiddish Land.

Incipit in salsa cubana e sprazzo metropolitano: il film di Wald c'immette subito in un ritmo travolgente di musica e immagini per poi affievolirlo calandoci gradualmente in una piccola e pittoresca realtà domestica, quella della famiglia Konianski. Il ritratto di famiglia, che tanto ricorda quello di un'altra gang di scalmanati, i fratelli andersoniani de Il treno per il Darjeeling, ripercorre le disavventure di un piccolo nucleo familiare, che intanto implode dal baricentro padre-figlio, in un bellissimo rapporto di odio-amore, sulla strada verso la Polonia.

L'umorismo che fa il verso a Woody Allen, specie se si considerano i doppi sensi e i rimandi continui alla relazione di fede, conoscenza e pregiudizi, inanellati intorno alla causa della comunità ebraica e al conflitto israelo-palestinese, è perfettamente funzionale alla struttura narrativa e le permette di evitare la caduta nel pathos stilistico e nel tono drammatico che il tema dell'Olocausto spesso ha attirato al cinema. L'omaggio al regista torna anche in una citazione, intenzionale o casuale che sia, nella sequenza in cui il nostro scettico e ateo protagonista si ritrova di fronte al rabbino "di sfiducia", comparso con il suo faccione da oratore nel bel mezzo del cielo azzurro, quasi identica all'episodio Edipo relitto del film collettivo New York Stories (Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, WoodyAllen, 1989) in cui il povero Sheldon-Allen era perseguitato dalla madre.

Anche la comparazione visiva, ma non cromatica, con Little Miss Sunshine, già abusata dalla critica estera, sembrerebbe idonea al film, ma Simon Konianski vira verso alt(r)i orizzonti: se il tragitto a cui i Nazisti condannarono gli ebrei fu architettato secondo la frammentazione e la sospensione, quello del nostro protagonista può essere visto come una metafora all'inverso di quella diaspora. Simon, che ha a che fare con un padre insistente e invadente anche da morto, come le surreali presenze spiritiche di Volver, percorre una strada che, seppure interrotta dai cronici siparietti dei suoi compagni di viaggio (gli zii paterni freakettoni), dal campo di sterminio di Majdanek proverà a congiungerlo alle sue radici, con la figura paterna - il bravissimo Popeck (Il pianista) , e, probabilmente, con la madre di suo figlio.