Recensione La fiamma del peccato (1944)

"...La posta era cinquantamila dollari più la vita di un uomo. Un uomo che non conoscevo. Solo che era sposato a una donna che non amava. E che io volevo ad ogni costo...". Alibi di ferro, polizze assicurative e architettura del delitto in un classico noir senza tempo.

Due vite che bruciano

Una sagoma scura che, saldamente ancorata a due stampelle, avanza minacciosamente verso i titoli di testa fino ad invadere l'intero schermo: non poteva esistere un incipit più energico (e che contiene già in nuce il tema del doppio tipico del film) per uno dei capolavori assoluti del cinema noir di tutti i tempi (l'indimenticabile colonna sonora fimata da Miklos Rozsa fa il resto (solo nella scena del cimitero, con l'incontro cruciale tra Walter e Lola, verrà sostituita, non a caso, dall'Incompiuta schubertiana). Insospettabile è il regista, Billy Wilder, re incontrastato (insieme ad altri grandi autori come Frank Capra, Ernst Lubitsch e Howard Hawks tra i tanti) della commedia americana. Qui infatti non ci sono gonne che svolazzano (Quando la moglie è in vacanza) o uomini travestiti da donne (A qualcuno piace caldo).

In un bianco e nero quasi smunto, ci sono luci che accendono flebilmente la notte di Los Angeles (il Michael Mann del recente Collateral, ma anche di Heat - La sfida, le avrà prese certamente come modello). E c'è un uomo distrutto, affaticato, che confessa ad un registratore, quasi in maniera solipsistica, le sue malefatte. Oltre alla costante voce off dai toni tipicamente noir ed alla costruzione del film per successivi flashback, Samuel Wilder (questo il vero nome del grande regista di origine austriaca ma, per tutti, americano di adozione) interroga il suo dna creando La fiamma del peccato con una gestione dell'illuminazione tipica della scuola espressionista. Ne conseguono scenari perennemente immersi in una torbida penombra, illuminata di tanto in tanto da qualche fiammifero che il protagonista maschile Walter Neff (un Fred MacMurray quasi bogartiano) accende usando semplicemente il pollice della mano.
La regia, come non accade di frequente in Wilder, riserva qualche tocco a sopresa, come per lo spiazzante primo piano di Phyllis nel momento esatto dell'omicidio di suo marito attuato fuori campo. Phyllis Dietrichson è interpretata dalla bravissima Barbara Stanwyck che, con i suoi boccoli d'oro e con il suo bravo braccialetto alla caviglia, costituisce il prototipo assoluto della spietata femme fatale ("...niente nervi. Niente lacrime. Neanche un batter di ciglio..." confesserà impietosamente Walter dinanzi al registratore).

Le luci e le ombre tipiche dell'espressionismo tedesco sono in generale smascherate, private del loro peso simbolico e servono solo a caratterizzare l'individualità dei personaggi, senza ridondanze e senza sovradimensionare i tanti dettagli della messa in scena. Il plot d'acciaio (tratto da un libro del maestro della hard boiled novel James M. Cain, l'autore di un altro bestseller "omaggiato" più volte dal cinema, Il postino suona sempre due volte) scritto da uno dei migliori sceneggiatori di Hollywood, Raymond Chandler, aiuta Wilder a non perder d'occhio i personaggi e i forti legami tra loro. Soprattutto il rapporto che si sviluppa quasi dal nulla tra i due protagonisti (in questo contesto è quasi sempre il volto della Stanwyck ad apparire ben illuminato, come in un tentativo di stabilirne una assoluta centralità nel film) fino al tragico epilogo. Anzi, ai due tragici epiloghi: quello della tardiva ed inutile redenzione (ennesimo trucchetto della femme fatale o sincero pentimento?) di Phyllis e quello conclusivo di Walter ferito a terra con l'implacabile Barton Keyes (uno straordinario Edward G. Robinson) che, accendendo al suo posto il fiammifero con il pollice, brucia definitivamente gli ultimi bagliori di speranza in un film nerissimo e amaro come pochi. E classico imperdibile come pochi.