Recensione Vogliamo anche le rose (2007)

Depurato da ogni sentimento nostalgico, Vogliamo anche le rose mette insieme l'inchiostro di pagine ingiallite con un tesoro di immagini ricche di un significato che va ben oltre la semplicità dell'apparenza.

Di petali e farfalle

C'era un tempo in cui le donne italiane lottavano con passione per conquistare i propri diritti, per uscire da una condizione di sudditanza nei confronti del maschio che le rilegava sempre ai margini, in ogni singolo contesto del pubblico e del privato. Erano gli anni compresi tra la metà dei '60 e la fine dei '70, un ventennio di fiero femminismo che ha rivoluzionato la vita delle donne, che ha fatto esplodere la loro consapevolezza, portandole nelle piazze perché si prendessero ciò che era loro dovuto. In quell'era cominciavano i passi avanti nel difficile percorso che conduceva alla liberazione sessuale, mentre oggi le conquiste e i traguardi sono dati per scontati e vengono spesso calpestati e rimessi addirittura in discussione con le volgari rincorse al velinismo o le sciocche battaglie oscurantiste di chi vuol fregare gli ignoranti per tornare indietro di secoli (leggere alle voci politica e religione, mostri pericolosi che vanno troppo spesso sciaguratamente a braccetto).

Avrebbe potuto quindi saccheggiare il contesto sociale e politico di quegli anni Alina Marazzi per questo suo Vogliamo anche le rose, carillon profumato di pensieri intelligenti che lucida un ricordo di cose buone dalle quali c'è solo da imparare, ma la regista, classe '64, lo osserva, lo studia e lo utilizza al meglio, ponendolo come sfondo a tre storie private le cui eco provengono da diverse età e differenti condizioni. Protagoniste del film sono infatti tre donne raccontate dalle parole con cui hanno riempito diari di solitudine e insofferenza, crisalidi che imparano a conoscere il proprio corpo e a dialogare con le proprie pulsioni sessuali, che si guardano intorno e s'accorgono dell'ombra del bastone del maschio che vorrebbe mummificarle in eterno dentro il bozzolo. Sono storie di vita quotidiana, che narrano di primi turbamenti di fronte al mondo esterno e di indicibili drammi interiori, che partono da un grembo occupato da qualcosa che non deve farsi vita, ma può essere grattato via solo nello squallore della clandestinità.

Depurato da ogni sentimento nostalgico, Vogliamo anche le rose mette quindi insieme l'inchiostro di pagine ingiallite (che trova nelle voci di Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti le sue perfette interpreti) con un tesoro di immagini (costituito da Teche Rai, cinema underground d'epoca, animazioni e invenzioni grafiche in stile fotoromanzo) ricche di un significato che va ben oltre la semplicità dell'apparenza. Così la dimensione privata trova una sua perfetta collocazione in quella collettiva, e il particolare si fa incisivo esempio dell'universale, in un'opera che riesce, in un incontro fatale di coincidenze, a farsi luce in un momento particolarmente buio come quello che stiamo vivendo oggi.

Alina Marazzi lavora come al solito con materiale già esistente, lo cerca, lo ordina senza snaturarlo e gli dà voce, lo rende testimonianza immortale di ciò che è stato. Era già successo coi suoi lavori precedenti, entrambi incursioni negli universi intimi di donne inconoscibili, da quello personale di una madre morta suicida nell'età ancora tenera della figlia, nell'eccezionale Un'ora sola ti vorrei, a quello silenzioso delle monache di clausura di Per sempre. Il montaggio di Ilaria Fraioli sa di miracoloso, sistema insieme colori e ricordi in bianco e nero con un'abilità e un gusto che non si sono mai visti in un documentario (ma è riduttivo definirlo così) italiano. Completano l'opera le splendide musiche dei Ronin, gruppo indie italiano che fornisce al film un commento musicale sublime e che contribuisce a ricoprire di petali d'emozione un'opera che di tanto in tanto si perde in aree di stanchezza che forse si sarebbero potute sorvolare, ma che colpisce nel segno e lo fa con la grazia tipica delle donne migliori.