Recensione Rendition - Detenzione illegale (2007)

Non è un brutto film 'Rendition', ma non è certo così incisivo come avrebbe potuto essere. In ogni caso aggiunge un altro tassello alla comprensione di quel che è l'America contemporanea e tutte le opere realizzate per far aprire gli occhi allo spettatore non possono che guadagnarsi comunque il nostro rispetto.

Dalla paura alla tortura

Col crollo delle torri gemelle del famigerato 11 settembre sono caduti tutti i freni relativi al controllo totale sugli individui da parte di chi detiene il potere. Le libertà civili si sono clamorosamente ridimensionate, quando non vengono spazzate via completamente, e la politica è stata legittimata ad agire con più aggressività, grazie soprattutto a quel panico diffuso, alimentato ogni volta a dovere per favorire gli interessi dei più forti, che da quella data ha colto ed incattivito i cittadini americani, con inquietanti ripercussioni anche sugli equilibri politici, economici e sociali del resto del mondo. Il nemico ha assunto caratteri precisi e il demonio si è incarnato nel musulmano. L'equazione arabo uguale terrorista è ormai data per scontata e anche i cittadini stranieri residenti negli Stati Uniti hanno visto gli sguardi degli americani mutare e diventare sempre più minacciosi nei propri confronti. Anche i provvedimenti politici più discutibili, adottati già durante i governi precedenti a quello attualmente in carica, sono stati portati al limite. Uno di questi è l'extraordinary rendition, programma speciale istituito dai servizi segreti in era Clinton, che permette il rapimento di cittadini stranieri residenti negli USA sospettati di essere potenziali terroristi, il loro trasferimento in carceri oltreoceano e la possibilità di utilizzare la tortura per ottenere informazioni considerate importanti per la sicurezza nazionale. Abomini del genere in quella che si professa la più grande democrazia del mondo, la dimensione più vicina al paradiso in terra, confermano il fallimento del Nuovo Mondo, rovinato da chi lo gestisce cercando solo di ampliare a dismisura il proprio potere.

Il cinema americano ha cominciato solo recentemente ad interrogarsi sulle conseguenze perverse dell'attacco al World Trade Center, sulle squallide scelte politiche che hanno portato poco a poco un intero paese nelle sabbie mobili di un panico distruttivo che ha allontanato i cittadini dal mondo fuori dai propri confini, accartocciandoli su sé stessi e favorendo l'handicap del sospetto nei rapporti interpersonali. Gavin Hood, premio Oscar per Il suo nome è Tsotsi, è il regista di un nuovo film di denuncia che porta all'attenzione dello spettatore proprio la disumana politica dell'extraordinary rendition, i suoi atroci metodi per estrapolare informazioni ad individui sospettati di terrorismo, senza tener conto della potenziale innocenza degli stessi. In Rendition si intrecciano storie drammatiche che ruotano attorno al rapimento di un ingegnere chimico all'aeroporto di Washington, un egiziano cresciuto negli Stati Uniti dove ha messo su famiglia, accusato di essere coinvolto in atti terroristici e di conseguenza rinchiuso in un carcere del Terzo Mondo per essere sottoposto a continue torture affinché confessi il suo ruolo in una serie di attentati di matrice islamica in territorio occidentale. Scritto da Kelley Sane, il film di Hood vuol portare alla luce una pratica spietata (che abbiamo imparato a conoscere anche qui in Italia con il noto rapimento di Abu Omar del 2003) che porta alla sospensione (o sarebbe meglio dire all'umiliazione) dei diritti umani, lasciando però aperta la questione chiave: come comportarsi di fronte a chi è sospettato di terrorismo? Quali sono i metodi leciti per arrivare alla verità?

Rendition semplifica esageratamente una vicenda ed un problema serio che forse avrebbe meritato un trattamento un po' più approfondito. La sceneggiatura getta ombre d'ambiguità su tutti i personaggi (salvo quello interpretato dalla Whiterspoon, incarnazione del Bene, e quello della Streep, incarnazione del Male), riserva all'agente Cia la possibilità del riscatto e non risolve il dubbio sull'innocenza o meno dell'uomo rapito, torturato e liberato quasi per caso, senza che sia stata chiarita realmente la sua posizione in merito a misteriose telefonate ricevute da un capo terrorista. La storia si muove agilmente su diversi piani temporali che confluiscono infine nella scena clou dell'attentato, prima di un epilogo un po' vile che non ci risparmia l'agognato ricongiungimento, ma mantiene tutte le ombre sull'islamico di casa in America. Piace il lavoro di sottrazione operato dagli attori: la Whiterspoon interpreta una moglie alla ricerca del marito scomparso con una dignità che non lascia spazio a facili lagne, Jake Gyllenhaal vive il proprio ruolo scomodo cercando di risolvere nel modo più onesto gli interrogativi che gli si agitano dentro, Meryl Streep torna ad essere cattivissima, e lo è fino in fondo, senza ripensamenti. Non è un brutto film Rendition, ma non è certo così incisivo come avrebbe potuto (voluto?) essere e se ci fermassimo solo al genere entro il quale si inscrive (il thriller) non potremmo che sottolineare la sua debolezza. Il film di Hood aggiunge però un altro tassello alla comprensione di quel quadro inquietante che è l'America contemporanea e tutte le opere realizzate per far aprire gli occhi allo spettatore non possono che guadagnarsi comunque il nostro rispetto.