Crialese e Nuovomondo a Venezia 63.

Il regista racconta il suo lavoro in concorso al Lido , quattro anni dopo il pluripremiato esordio 'Respiro'

Applausi hanno seguito la proiezione di Nuovomondo e applausi accompagnano l'entrata in sala conferenze di Emanuele Crialese, grande promessa del nostro cinema che sembra diventato una realtà con quest'opera di grande cretività e rigore. Con lui, gli interpreti Vincenzo Amato, Charlotte Gainsbourg, Aurora Quattrocchi, Francesco Casisa e Filippo Pucillo.

Crialese, cosa ha determinato la decisione di tornare indietro a questo momento della storia d'Italia?

Emanuele Crialese: Non c'è stato un ragionamento vero e proprio, è stata più che altro una visita all'Ellis Island Museum di New York. Sono stati gli sguardi dei nostri emigranti, ma anche degli emigranti di tutto il mondo, che guardavano l'obiettivo sospesi, storditi, sperduti, come se fossero appena sbarcati sulla Luna. La forza e la voglia di fare un film su questo viaggio che uomini molto coraggiosi hanno intrapreso viene da quegli sguardi. Non è stata una scelta politica, né un desiderio di descrivere sociologicamente quello che voleva dire emigrare, è semplicemente un'idea che mi è stata suggerita da quegli sguardi catturati in quelle fotografie.

Nel film, il nuvo mondo è solo nei sogni e nella nebbia. C'è un messaggio rivolto a chi approda alle nostre rive, una riflessione sul mondo che si lascia e su quello che ci si aspetta da quello che si raggiunge?

Emanuele Crialese: Io ho sempre dei grossi problemi con il lancio dei messaggi, non riesco a lanciare messaggi. Quello che mi piace lanciare sono piuttosto gli interrogativi. Questa è gente che parte che lascia tutto, la cultura, la terra, la lingua, nella speranza di una nuova vita, e innanzitutto di un lavoro. Noi abbiamo dato un esempio nel mondo, siamo il popolo che emigrato di più in assoluto, siamo emigrati in venti milioni, non solo in America ma in tutto il mondo, e ci siamo integrati nelle nuove terre, abbiamo mantenuto la nostra identità di italiani e siamo riconosciuti in tutto il mondo come gente che lavora. Penso che siamo noi quelli che dovrebbero riflettere su cosa significa lasciare la propria terra, in mondo che forse s'impari ad accogliere questa gente disperata che vuole soltanto lavorare.

Lei è molto giovane, ma ha fatto un film di una maturità e di una precisione incredibile: si notano i rammendi nei fazzoletti delle ragazze, non c'è una comparsa distratta. Quanto ha impiegato per realizzare questa ricostruzione così rigorosa? Si è avvalso di testmonianze orali di persone anziane?

Emanuele Crialese: Io ho collaborato con un giovane costumista, un esordiente, Mariano Tufano, e gli ho fatto capire che volevo toppe, rammendi, ricami. Abbiamo discusso a lungo, ma direi che Mariano potrà dirsi soddisfatto perché ha fatto un grandissimo lavoro.
Quanto alla documentazione ho percorso due strade diverse: prima cosa, la documentazione storica. Ho studiato molto il contesto, e a un certo punto mi sono fermato e ho inizato a leggere le lettere degli emigranti. Ne ho lette centinaia, ed è attraverso l'espressione diretta dei sentimenti di quella gente che ho provato a immedesimarmi e di ritrovare lo spirito di un uomo di altri tempi. Perché l'uomo di altri tempi scriveva in un altro modo, era molto positivo, gli succedevano le peggiori tragedie ma riusciva sempre a trovare il lavo positivo delle cose. I miei nonni sorridevano anche di fronte alla miseria più nera. Io li cerco questi uomini che mi fanno sognare, e che mi hanno accompagnato in questo viaggio che è stato la fatica più grande che io abbia intrapreso fino ad ora.
Sulle comparse volevo dire che che abbiamo scelto di girare a Buenos Aires e ogni singola comparsa è stata scelta da me su circa settecento persone, anche grazie all'aiuto dei miei fantastici aiuto registi. Ognuna di quelle persone ha vissuto quella storia anche se indirettamente: erano i figli dei nostri emigrati in Argentina. Quindi c'è stata una partecipazione incredibile sul set grazie alle loro storie, ci sono stati grandi momenti di commozione che mi hanno spinto a continuare a cercare qualcosa di vero.

Molti di noi avevano il dubbio che fosse impossibile raccontare ancora una volta questa storia, invece lei c'è riuscito, anzi, è come se avesse aggiunto un tassello fondamentale che a questa storia mancava. Anche lei ha l'impressione che rispetto a quanto avevamo fisto fino a adesso mancasse qualche cosa?

Emanuele Crialese: Il mio riferimento è stato America America di Elia Kazan, che ho preso come riferimento per fare qualcosa di diverso; e non è stato affatto facile perchè io credo che lui abbia raccontato quella storia in maniera magistrale. Mi sono allontanato da Kazan perché lì c'è una visione un po' troppo trionfalistica dell'America, il paese della libertà, per cui siamo disposti a qualunque cosa, e così via. Qui ho voluto prendere le distanze, evitando di dare giudizi e fotografando una situazione che era frutto dell'iimaginazione, dell'immaginario collettivo, che ho trovato nelle lettere degli emigrati.

La donna inglese interpretata da Charlotte Gainsbourg è una sua fantasia?

Emanuele Crialese: Questa donna inglese nel film si chiama Lucy, il mio sognatore sente il suo nome e lo interpreta a modo suo, e per tutto il film la chiama Luce. Luce è una donna dell'altro mondo, è una donna moderna, l'unica donna di tutta la nave che viaggia da sola, e che vive profondamente questo suo senso di solitudine. Per il resto volevo che rimaesse una figura misteriosa, come un fantasma, come un'idea, è un altro sogno di Salvatore. Era importante che fosse straniera, perché volevo che anche il mio rapporto con lei implicasse la necessità di trovare un linguaggio comune a culture diverse, universale. Con Vincenzo Amato ci capiamo con uno sguardo, con lei è stato tutto più difficile ma anche intrigante e miserioso. Per me Charlotte rimane ancora un mistero.

Che problemi si è posto nell'affrontare le parti più oniriche della storia?

Emanuele Crialese: Quando si fa quelcosa del genere, si teme sempre di essere giudicati presuntuosi, ma al di là di questo io mi sono lasciato andare. Sono stato molto incoraggiato dall'allegria di tutti i miei attori. Io mi confronto sempre con loro sulle idee che mi vengono in mente, loro sono il primo test: dai loro sguardi capisco se la cosa è relizzabile. A volte vengo criticato e a volte vengo incoraggiato. E così mi sono mosso anche stavolta.

Il film è più onirico che realista; allora perché la scelta del dialetto stretto, che renderà il film di difficile comprensione al Settentrione?

Emanuele Crialese: Il suono per me è importante quanto l'immagine. E trovo - ma è un'opinione personalissima - che tutti i nostri dialetti abbiano una carica emotiva che l'italiano non ha. Il dialetto è pià carnale, più sanguigno; io il dialetto siciliano non lo parlo, sono nato e cresciuto a Roma, me l'hanno insegnato loro, e sentendoli parlare in dialetto, capendo ogni volta qualcosa di più, lo'ho trovato così poetico che non ho potuto fare a meno di riproporlo. Credo che sia uuna ricchezza la nostra di avere dialetto e lingua standard. D'altra parte la 01 mi ha concesso inserire sottotitoli punti più ostici, un esperimento senza precedenti.

Charlotte Gainsbourg, come si è trovata a lavorare a questo film?

Charlotte Gainsbourg: La storia mi ha appassionato subito. Certo sul set a Buenos Aieres ero un po' spaesata, perché parlo poco italiano e non parlo per nulla lo spagnolo. Ma credo che servisse anche al personaggio, che è quello di una donna solitaria, quindi mi ha aiutato nel mio lavoro.

Vincenzo Amato: Charlotte era tranquilla, riservata appariva in siilenzio sul set, splendida e in costume, ed era fantastcio perché mi aiutava ad essere subito Salvatore. Per il resto, per entrare nel personaggio sono andato a lavorare in campagna con un contadino, e sono stato ad ascoltare le sue storie. Mi è servito a fare il contadino di cento anni fa, è una razza bellissima che non esiste più. Ma credo di essermi meritato di vestire i suoi panni con il lavoro che ho fatto; spero che il personaggio di Salvatore ne abbia giovato.