Recensione Siamo tutti in ballo! - Mad Hot Ballroom (2005)

La regista si muove tra i giovanissimi ballerini con destrezza mentre esplode la danza ed è brava a coglierne i pensieri più intimi con una delicatezza esemplare

Crescere a passo di danza

Negli ultimi anni la tv italiana sembra aver scoperto la grande forza attrattiva che le sfide di ballo hanno sui telespettatori. Ciò si traduce in ascolti record e, quindi, in consistenti introiti pubblicitari e televoti vari particolarmente remunerativi, non importa se il livello di queste trasmissioni, che fanno della danza solo un grande affare, passi dal trash apocalittico di quelle di Maria De Filippi al kitsch patinato di quelle targate Milly Carlucci e relativi pseudo-vip. L'amore per una pratica (un'arte?) che così tanto si ciba di vita, per restituirne altrettanta, sembra essere, ancora una volta, tutt'altra cosa rispetto a quella rappresentata quotidianamente nello scatolone domestico. Così, capita che la passione per il ballo e un genuino coinvolgimento verso sfide a passi di tango o merengue, vengano riaccesi dal buon vecchio cinema, in quella forma che negli ultimi tempi ha dimostrato grande vitalità: arriva dalla Grande Mela, infatti, un formidabile documentario a ritmo di musica, che non soltanto entra nelle sale da ballo di tre scuole medie newyorchesi, popolate in buona parte da immigrati provenienti da ogni angolo del globo, impegnate nell'apprendimento di balli da sala tradizionali e latinoamericani e quindi in trascinanti gare, ma accompagna anche i suoi giovanissimi protagonisti nelle strade della metropoli americana, e finanche nelle loro stanzette, per raccontarne sogni e paure nella difficile avventura del crescere.

Siamo tutti in ballo! - Mad Hot Ballroom è un "documentario di formazione" che racconta quella delicata fase in cui non si è più bambini, ma si è messo solo un piede nel mondo dell'adolescenza, un momento fondamentale nell'evoluzione psicofisica dell'essere umano, quando il corpo comincia a cambiare e al gioco e alla spensieratezza si sostituiscono progressivamente gli inevitabili interrogativi sul futuro e sul proprio posto nel mondo. Colpisce come ragazzini così piccoli siano profondamente consapevoli di quel che accade loro intorno, della possibilità mai così remota di ritrovarsi, da un giorno all'altro, a dover diventare criminali per sopravvivere, delle colpe o dei sacrifici dei propri genitori, del pericolo reale di essere abbandonati dalla società e perdersi nella droga. Per questi ragazzini il ballo rappresenta un potente mezzo di comunicazione attraverso il quale conoscere il proprio corpo e quello degli altri, un momento in cui maschi e femmine sono messi gli uni di fronte agli altri e possono conoscersi, toccarsi, condividere emozioni, ma anche un'occasione per imparare a rispettare coetanei di culture diverse e adulti, per confrontarsi in competizioni sane ed affrontare scelte, giudizi, successi e sconfitte.

La regista Marilyn Agrelo, produttrice di film indipendenti e spot pubblicitari al suo esordio dietro la macchina da presa, segue le giornate di tre gruppi di scatenati ragazzini, senza risultare mai invadente, si muove tra di loro con destrezza mentre esplode la danza (divertente notare come da piccoli i maschi siano più impacciati e timidi, le femmine, già vanitose, più a loro agio) ed è brava a coglierne i pensieri più intimi con una delicatezza esemplare, evitando forzature o speculazioni sul vissuto dei piccoli protagonisti, chiamati a raccontare sé stessi, attraverso lucide conversazioni o irresistibili monologhi di fronte alla macchina da presa, mentre sullo sfondo la metropoli si muove senza sosta. E dopo aver imparato a ballare, la competizione li metterà in gioco, testerà i loro progressi e decreterà un solo vincitore, così alcuni conosceranno l'amarezza della sconfitta, mentre per gli altri ci sarà soltanto l'incontenibile gioia del trionfo, ma in tutti (spettatori inclusi) resterà sicuramente il divertimento e la passione che un'arte come questa trasuda copiosa quando è così sincera.