Recensione Death Race (2008)

Death Race è un b-movie con tutte le caratteristiche del caso: sangue, adrenalina, bolidi che sfrecciano, belle donne. Oltre a questo, però, offre alcuni spunti di riflessione sul mondo in cui viviamo.

Corsa all'ultimo sangue

Uno strano film, questo Death Race. Nasce curato dalla mano di Paul W. S. Anderson, regista che con i b-movie, qualunque cosa se ne pensi, ci sa fare, e mescola elementi di pura action dalle sfumature tamarre (ci si passi il termine gergale) con spunti di riflessione interessanti, anche se ovviamente, nel contesto nel quale sono inseriti, finiscono per banalizzarsi.
Jason Statham si trova infatti al centro di una pellicola particolare, che trae elementi dai recenti Speed Racer e Fast and Furious, ma che affonda a piene mani anche in un linguaggio più antico, complesso e dai risvolti problematici.
Il riferimento all'antica Roma nelle didascalie iniziali e la grande arena nella quale si disputa la Corsa Mortale del titolo farebbero in qualche modo pensare a grandi classici, Ben Hur e la sua ormai celebre corsa delle bighe fra tutti.

Il paragone non sembri così improprio. Come l'eroe del film sfidava il perfido Messala in una delle più appassionanti corse all'ultimo sangue della storia, in Death Race il cuore di tutto il film è una corsa all'ultimo uomo. Il premio? La libertà.
E' in un gigantesco carcere su un'isola che avvengono infatti i duelli, fonte di enormi introiti per lo Stato e di estremo divertimento per un pubblico pagante che si nutre di quel "panem et circenses" che ormai sembrava essere sepolto dal fluire della Storia, non più rilevante al punto di essere visto come vera e propria valvola di sfogo per una società sull'orlo di un baratro.
Già, perchè uno sceneggiatore inaspettatamente preveggente ha collocato l'azione del film in avanti nel tempo, nel nostro futuro più prossimo, il 2012, avvertendoci che l'abbrutimento di cui vedremo sullo schermo è dovuto anche ad una gigantesca crisi economica che ha piegato le finanze di tutto il mondo.
Tentativi, forse casuali, di mettere in allarme chi guarda: la recessione attuale, la perdita di fiducia dell'uomo moderno nel mondo in cui vive, è foriera anzitutto di una regressione culturale.
Il dato più agghiacciante non è tanto vedere come i piloti cerchino, con successo, di uccidersi l'un l'altro su un ring automobilistico che è il vero e proprio padrone della scena, attorno al quale ruotano tutte le sequenze della storia. Ma è piuttosto un business macabro e sadico, quello di una televisione estrema che spinge sempre più in basso l'asticella di ciò che è concesso vedere, attirandosi per questo sempre più pubblico, denaro, applausi. Vengono quantificati in 75 milioni gli spettatori paganti che godono, proprio come nel circo della Roma imperiale, a vedere lacrime, sangue e stridore di denti di uomini che lottano per guadagnare una libertà effimera.

Paul W. S. Anderson pittura un mondo metallico, cupo, costruendo un film semplice nei suoi tratti

narrativi, ma suggestivo e mai noioso, permettendosi addirittura una citazione, tra le tante, di Carlito's Way, rivelando così di sapere benissimo il tipo di prodotto al quale sta dando vita.
Non un prodotto per palati fini, un film d'azione solido che sconfina ampiamente e volutamente nel b-movie, con tutti i suoi pregi, ma anche con tutti i limiti del caso. Cade soprattutto nell'eccessiva mercificazione del ruolo della donna, utilizzata unicamente per la sua prestanza scenografica e poco più. Caduta che è tale perchè diegetica, inserita nelle trame che il film descrive, non metaforica o autoironica.

Un film non privo di difetti agli occhi di un pubblico colto, ma anche notevolmente più interessante di tanti altri del suo genere. Almeno, anche se superficialmente, offre qualche spunto di riflessione interessante a chi avrà la pazienza di coglierlo.
Per gli altri, una buona ora e mezza di sana adrenalina.