Recensione Le sette spade della vendetta (1993)

Questo film, conosciuto dal pubblico internazionale come "The Kung-Fu Cult Master", uscì nel 1993 sull'onda della rinascita del genere wuxiapian e della recente esplosione di quella che già si era presentata come la nuova, indiscussa stella del cinema di Hong Kong: Jet Li.

Corpi e spade fiammeggianti

Questo film, conosciuto dal pubblico internazionale come The Kung-Fu Cult Master e presentato in Italia con un titolo semplicemente assurdo (ci si chiede se chi l'ha scelto abbia visto il film o quantomeno letto la trama, visto che le spade qui presenti sono soltanto due), uscì nel 1993 sull'onda della rinascita del genere wuxiapian e della recente esplosione di quella che già si era presentata come la nuova, indiscussa stella del cinema di Hong Kong: Jet Li. Il regista, Wong Jing, è forse il cineasta asiatico in assoluto più attivo degli ultimi anni: nella sua filmografia, in poco più di vent'anni si contano qualcosa come settantadue film diretti e settantacinque prodotti, una vera e propria macchina per fare soldi con un fiuto produttivo e per il gusto del pubblico fuori dal comune, che nel corso degli anni è stato in grado di lavorare praticamente con tutti gli uomini di cinema più importanti nella ex-colonia britannica.
In questo caso, Wong si avvale delle coreografie di un veterano come Sammo Hung e della straordinaria presenza scenica e atleticità dell'astro nascente Li, per narrare una storia dalle tipiche coordinate fantasy-cavalleresche, che ha a che fare con temi classici come la vendetta, la fedeltà alle proprie radici e al proprio maestro, la lealtà e l'onore. Il regista, tuttavia, inserisce nella storia un umorismo molto spinto, di grana grossa, che sfocia a tratti nella demenzialità: è un gusto squisitamente popolare, quello che guida il regista in questa come in altre sue opere, che rovescia la potenziale drammaticità di molte scene inducendo spesso lo spettatore alla risata crassa. La trama, è bene dirlo, è molto complessa e a tratti contorta, i personaggi sono molti e non sempre la sceneggiatura riesce a star dietro ai tanti sotto-plot presenti: lo spettatore occidentale può restare certamente spiazzato da una costruzione di questo tipo (tuttavia comune a molte pellicole del genere), abituato alla linearità del cinema di genere di stampo occidentale. Inoltre, il film non ha purtroppo un vero finale: alla fine dei 103 minuti di durata la storia resta infatti sospesa in attesa di un sequel che purtroppo non è stato mai realizzato.
In ogni caso, non si può non rimanere stupefatti di fronte alle splendide coreografie create da Hung e alla generale padronanza dei mezzi tecnici messa in scena un po' ovunque in questo film: i combattimenti, sospesi tra le meraviglie aeree del wire-working e la straordinaria fisicità espressa da un atleta come Jet Li, ammaliano l'occhio con un senso del movimento continuo, con una ricerca costante della meraviglia visiva, con una sfida ai concetti di gravità e credibilità che lasciano piacevolmente storditi. L'occhio non riesce a seguire completamente ciò che avviene sullo schermo, ma è tuttavia incapace di staccarsene, ipnotizzato: per apprezzare il grande lavoro che è stato fatto sulle coreografie, sarebbe bene vedere il film, o almeno alcune scene, più di una volta. Tra le tante sequenze d'azione mi limiterò a citare quella, di massa, dell'assalto alla Vetta Luminosa: mentre i ribelli vengono attaccati e decimati, e tutto intorno è morte e spargimenti di sangue, improvvisamente partono le note di una ballata molto dolce, che crea un incredibile contrasto con le immagini che vediamo sullo schermo. Gli effetti speciali, seppur spesso piuttosto artigianali (ma stiamo parlando di una produzione a costo medio-basso, non bisogna dimenticarlo), si integrano bene nella storia e contribuiscono da parte loro al grande impatto visivo che il film indiscutibilmente ha.
Altre due parole su Jet Li vanno sicuramente spese: l'attore, reduce dal grande successo di due capolavori scandalosamente inediti dalle nostre parti come i primi due episodi della saga Once Upon a Time in China, diretti da Tsui Hark, è qui alle prese con un ruolo dal forse minore potenziale epico-drammatico; tuttavia, Li dimostra qui ancora una volta di avere straordinarie doti interpretative, una presenza scenica assoluta, e un'abilità nelle arti marziali che ha pochi eguali nel cinema della ex-colonia britannica. Chi lo conosce solo per le sue pellicole americane come Arma Letale 4 o Romeo deve morire farebbe forse bene a dare uno sguardo a film come questo.
In definitiva, se si vuole venire a contatto con una realtà cinematografica come quella di Hong Kong sfruttando i (pochi) canali che la nostra distribuzione ci mette a disposizione, un film come questo può essere un buon viatico: fermo restando che, non bisogna dimenticarlo, si tratta di un prodotto di puro intrattenimento, senza pretese autoriali, e che i film veramente importanti, quelli che hanno fatto la storia del cinema nel periodo d'oro di questa strana "isola felice", sono tuttora, purtroppo, "invisibili" dalle nostre parti: a meno che, naturalmente, non ci si voglia rivolgere al mercato sommerso dei DVD d'importazione, o, per i più fortunati e informati, a quello mai abbastanza pubblicizzato degli acquisti in rete.

Movieplayer.it

3.0/5