Recensione L'uomo di vetro (2007)

Una storia vera raccontata da Stefano Incerti con viscerale passione e profondo coinvolgimento emotivo, attraverso il cuore e la mente turbati di un ragazzo fragile che ha pagato il prezzo dell'anticonformismo con la pazzia e la morte.

Contro il muro della mafia

La fragilità di un uomo che si oppone alla mafia, la sensibilità di un animo che non accetta di soggiacere all'omertà, la pazzia di chi ha il coraggio di dire la verità.
L'uomo di vetro racconta la tragica storia, realmente accaduta, di Leonardo Vitale, uno strano ragazzo, chiuso fragile e pauroso, che, sospeso tra momenti di delirio e stati di lucidità, ebbe la forza di svelare i segreti della criminalità organizzata siciliana.

Tutto parte da un giorno di agosto del '72, quando Leo (interpretato da David Coco) viene arrestato come sospettato complice nel sequestro Cassina. All'inizio nega ogni accusa e partecipazione ai fatti, poi il suo tremore aumenta, la paura e il senso di colpa premono sulla sua giovane coscienza fino a farlo esplodere, spingendolo a fare nomi e cognomi degli autori del rapimento.
Passa quarantuno giorni in prigione, pian piano divorato dall'angoscia e il terrore di essere ucciso. Sa qual è il destino di chi parla, vede la morte inseguirlo dappertutto. Grida, vuole scappare e cerca di nascondersi tra gli angoli della sua cella d'isolamento. La paranoia lo porta a perdere il controllo: smette di mangiare e di parlare, continua solo a pregare in preda alla disperazione. I suoi occhi sono persi in un'altra dimensione, allucinati.
La scarcerazione e il ritorno a casa non migliorano le cose, ormai anche medici e famiglia sembrano rassegnati ad una malattia mentale. Viene ricoverato in ospedali psichiatrici e manicomi, sottoposto a elettroshock, e la sua pazzia sembra essere la sua unica chance si sopravvivenza.
"È un morto che cammina" dice lo zio Titta (Tony Sperandeo) a sua madre (Anna Bonaiuto). O pazzo o morto, questa è la scelta per il triste destino del figlio e lei dice: "Io lo voglio vivo". Ma Leo non è pazzo, è solo malato di un male che si chiama mafia e non sa come liberarsene.
Passato un anno, nel marzo '73, Leo è preso da un impulso incontrollabile e confessa ad un commissario di essere un assassino. Si libera finalmente la coscienza dal peso del peccato e del rimorso, ritrovando in Dio la propria salvezza. Racconta così tutto quello che sa, elencando i nomi dei complici della cupola mafiosa di cui anche lui, coinvolto dallo zio, faceva parte.
Partono centinaia di arresti e insieme fomenta l'odio per la famiglia Vitale. Vengono commissionati omicidi e l'equilibrio ritrovato di Leo crolla di nuovo.
Le dettagliate accuse da lui formulate cadono per l'infermità mentale che gli viene attribuita, tutti i colpevoli vengono scarcerati e lui è di nuovo rinchiuso nel silenzio assordante della pazzia.

Un film di estrema sofferenza che tocca la ferita aperta della mafia, l'ipocrisia del non detto e la paura dell'uscire allo scoperto. Una storia vera raccontata da Stefano Incerti con viscerale passione e profondo coinvolgimento emotivo, attraverso il cuore e la mente turbati di un ragazzo fragile che ha pagato il prezzo dell'anticonformismo con la pazzia e la morte.
Un ragazzo ucciso pochi mesi dopo essere finalmente tornato in libertà nel 1984.