Con Ferrario per sapere se è davvero tutta colpa di Giuda

Davvero tante le sorprese emerse dall'incontro col regista Davide Ferrario e col cast di Tutta colpa di Giuda, brillante pellicola che rappresenta anche un modo diverso di guardare alla religione e all'istituzione carceraria.

Rispetto a tante conferenze stampa che si trascinano oziosamente e senza lampi di genio, si sapeva già che con Davide Ferrario sarebbe stata tutta un'altra musica. Musica in tutti i sensi, considerando che all'anteprima romana di Tutta colpa di Giuda hanno presenziato anche Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Cecco Signa, i cui brani hanno conferito uno spessore notevole alla colonna sonora del film. Oltre a loro erano presenti anche i bravissimi Fabio Troiano e Kasia Smutniak, che nel ricordare l'atmosfera tutta particolare del set hanno tirato fuori aneddoti molto coinvolgenti, soprattutto riguardo al rapporto instauratosi coi detenuti che hanno partecipato alle riprese.
Eppure, nonostante il valore delle altre testimonianze, il grande mattatore dell'incontro è stato proprio lui: Davide Ferrario. Di fronte alle domande dei giornalisti, anche le più insidiose, il regista ha saputo descrivere con humour e scioltezza le fonti di ispirazione del suo progetto cinematografico, parlando a ruota libera di religione, dei tanti paradossi legati all'istituzione carceraria e del livello di improvvisazione raggiunto sul set, dove i vari apporti creativi si sono sommati senza fare necessariamente riferimento a una sceneggiatura di impronta tradizionale; da ciò si è sviluppato un discorso che ha toccato argomenti delicati come l'ateismo e la difficoltà di relazionarsi alle costrizioni imposte dalle religioni organizzate, tutte idee esposte con tono brillante, ironico, quasi confidenziale. Ma è il momento di entrare nello specifico di alcune questioni.

Il suo film nasce da precedenti esperienze di lavoro in carcere?

Davide Ferrario: Non avrei mai pensato di poter fare un film così senza avere alle spalle la frequentazione dell'ambiente carcerario. Il carcere non è certo un posto dove puoi introdurti per fare cinema e andartene appena hai finito. Attenzione, però perché il mio non è nemmeno un film sul carcere, piuttosto lo definirei un film nel carcere. Così come Dopo mezzanotte non era un film sulla Mole Antonelliana e il Museo del Cinema, ma un film nella Mole.
Di base c'è il fatto che dal 2000 conduco laboratori audiovisivi nel carcere di San Vittore. Quanto al tessuto sociale con cui sono venuto a contatto, fa fede quanto dice Gianluca Gobbi, quando nel film descrive i detenuti con i quali ci si sta confrontando come poca roba, gente arrestata per piccoli reati, tra cui spiccano invece un paio di elementi "socializzanti", ovvero ergastolani o soggetti condannati a lunghe pene detentive aggregati al gruppo per facilitare l'inserimento degli altri nella vita carceraria.

Nei dialoghi si ascoltano frasi molto forti, che fanno riflettere. Come si è sviluppata la sceneggiatura?

Davide Ferrario: Quando sento parlare di sceneggiatura metto subito mano alla pistola! In realtà non sento il bisogno di una sceneggiatura tradizionale quanto piuttosto di qualcosa che con la sua elasticità mi consenta di cercare la musicalità del linguaggio, mettendo a punto i dialoghi insieme agli interpreti. Non sarei mai potuto andare dai detenuti facendo dire loro battute che sarebbero suonate innaturali. Quello che si fa durante le riprese va visto poi in funzione del lavoro che si farà in montaggio e con le musiche.

Cristiano Godano: Si è parlato di testi e musiche, ne approfitto per dire che mi sono molto emozionato nel vedere come è stato utilizzato un nostro brano, con le parole messe in bocca ai carcerati che escono dalle celle eseguendo una particolare coreografia.
Per la colonna sonora del film Ferrario ha pescato tre canzoni dal nuovo album più altre dal repertorio dei Marlene Kuntz, ma ne abbiamo composta anche una appositamente, quella che si ascolta nei titoli di coda. A tal proposito, posso dire che condivido pienamente quanto si dice nel dialogo in cui si paragona il carcere a ciò che finisce sotto un tappeto, dove la società nasconde i propri fantasmi; tant'è che il brano collocato nei titoli di coda propone riflessioni simili, quelle di un detenuto che dall'esperienza carceraria e dalla contemplazione delle sue storture acquista una differente consapevolezza del proprio status.

Cecco Signa: Per quanto riguarda me posso dire invece che La libertà era già edita, mentre Tutta colpa di Giuda l'abbiamo scritta insieme io e Davide, a mo' di monologo, un monologo che tenti di spiegare il senso del film in modo ironico e persino gioioso.

Fabio Troiano: Già in Dopo mezzanotte mi ero abituato a lavorare senza una vera sceneggiatura, con alcune cose scritte che poi rielaboravamo insieme.
In Tutta colpa di Giuda è emblematica la scena in chiesa con me, Gobbi e la Smutniak, una scena che inizialmente doveva essere fatta addirittura nell'ufficio del direttore, mentre il giorno stesso Davide ci ha fatto sapere che l'avremmo girata nella cappella del carcere. Era come se anche lui fosse alla ricerca della soluzione migliore, tant'è che all'inizio dovevamo urlare, poi invece ci ha detto che avremmo discusso parlando a bassa voce come si usa in chiesa, dopo averci pure piazzato vicino due personaggi in più che pregano! La scena, inoltre, è piena di battute come quella sull'esorcista o "vade retro Satana", che sono state pensate lì per lì.

Davide Ferrario: Un aneddoto divertente, relativamente a quella scena, è che non eravamo sicuri se per girare lì dovessimo chiedere l'autorizzazione al direttore del carcere o al prete. Così abbiamo cercato prima il sacrestano di quell'istituto, senza successo, trovandoci infine a colloquio col direttore che ha risolto la questione così: il permesso ce lo dava lui, perché è pur vero che quella è una chiesa, ma inserita nel complesso del carcere e perciò sotto la sua diretta responsabilità, trattandosi di una struttura posta anche territorialmente sotto una particolare giurisdizione. Suona buffo, ma è come se si fosse riprodotto in piccolo uno di quei dibattiti sulla laicità dello stato, che tengono banco ultimamente nelle aule parlamentari e sulle prime pagine dei giornali!

Kasia Smutniak: Da parte mia aggiungo che questo matto durante le riprese si è inventato di tutto, un giorno che pioveva a dirotto e non si poteva usare la cinepresa principale si è preso la videocamera di una ragazza che curava il backstage, girando comunque le scene che mi riguardavano. Alcune cose erano preparate, chiaro, ma poi c'erano dialoghi che ci studiavamo e riscrivevamo tutti insieme.
La parte più bella del lavoro era che arrivavamo sul set, ma non sapevamo fino in fondo cosa sarebbe successo!

Ferrario, può dirci qualcosa a proposito dello sguardo ironico sulla religione proposto da molti dialoghi? E questo non vuol dire forse, al di là dell'approccio molto flessibile alla sceneggiatura, che qualcosa di costruito c'è?

Davide Ferrario: Bisogna capire cosa si intende per costruzione. Sono semplicemente contro la tirannia della sceneggiatura. Come accennavo poco fa ritengo che nel cinema sia molto più importante la musica, insieme al montaggio che, senza voler fare teoria a tutti i costi, dovrebbe coincidere con la parte più creativa del lavoro.
Mi capita spesso poi di parlare in senso critico della religione, ma alla fine mi ritrovo a dare molta importanza al cielo! Già, pur essendo un ateo convinto, mi ritrovo tante volte a interpretare il cielo. Così come ho fatto, in senso letterale, a proposito delle scene che ricordava prima Kasia e che abbiamo girato in circostanze apparentemente avverse. Laddove altri avrebbero pensato che il tempo atmosferico lanciasse un segnale preciso, "non fatelo", io invece ho visto una possibilità.
Eh, bisogna avere una gran fede per essere atei!
Tutto infatti era stato messo al sicuro perché venisse protetto dai danni dell'acqua, a partire dalla costosa cinepresa in dotazione, ma io allora ho pensato di usare una telecamerina per riprendere Kasia in quelle condizioni, col cielo grigio intorno al suo volto che assicurava maggiore verità, oltre che drammaticità, ed è andata bene!
Continuo ovviamente ad essere molto ateo, ma questo cosa vuol dire? Vuol dire che non approvo le religioni organizzate, che non mi piace per niente l'dea che qualcuno si svegli la mattina e si metta a parlare in nome di Dio. Mentre, al contrario, non ho nulla contro il fatto che qualcuno cerchi risposte d natura spirituale alle domande che la vita ci pone, mi piace anzi stabilire un dialogo con chi cerca queste risposte nella religione.

Nel suo film c'è qualcosa, quindi, della teoria cara ai non cristiani che se non ci fosse stato Giuda la missione di Cristo non avrebbe avuto senso?

Davide Ferrario: Sono un non credente, ma credo che la religione abbia un ruolo importante nella nostra cultura, tale da meritare di essere sviscerato con cura, sempre partendo dall'idea che si sta parlando di miti.
E quale posto migliore della galera per parlare di sacrificio, espiazione? Galera che, guarda caso, da qualche secolo a questa parte viene chiamata anche penitenziario.
Nel film si accenna poi a un Gesù dominato dall'ossessione di salvare il mondo, che non agisce così perché vuole fare del bene, ma perché è troppo preso dall'urgenza della sua missione. Non c'è quasi mai un momento in cui appare rilassato, a suo agio in questa realtà. In generale il Gesù che ci ha raccontato la Chiesa nei secoli è assai diverso da quello che traspare dai Vangeli...

Qualche parola sugli altri interpreti?

Sì, vorrei sottolineare la presenza di Paolo Ciarchi, che un tempo si esibiva con Giovanna Marini e che in questi anni si è specializzato nel suonare qualsiasi tipo di strumento, una qualità che si è rivelata molto utile ai fini del film, che non è un vero e proprio musical dove all'improvviso la gente si mette a cantare; qui c'era bisogno di qualcuno che innescasse la componente musicale nel corso dell'azione, facendo vibrare quello che si trova già in scena.
Vorrei poi aggiungere che una frequentazione di oltre nove anni del carcere ti porta, se non sei completamente ottuso, a comprenderne certi meccanismi, per cui ho voluto proporre qualcosa di differente rispetto all'immagine tradizionalmente offerta dal cinema; un'immagine che vede la prigione quale luogo di conflitti, al massimo come pretesto per raccontare un'evasione.
Invece da parte mia c'era il desiderio di rappresentare il carcere non come epicentro di conflitti, ma come luogo di mediazioni, perché chi ha esperienza diretta di queste strutture che accolgono ormai un numero impressionante di persone, tra detenuti, agenti e altri operatori del settore, sa bene che tale microcosmo andrebbe in pezzi se il livello di conflittualità interna fosse troppo alto.
Anche per questo ho voluto il giovane e bravo Fabio Troiano nel ruolo del direttore, contraddicendo così quel luogo comune di tante pellicole americane che dipingono tale personaggio come un ometto brutto, laido, sgradevole.
Sempre all'insegna del ribaltamento ho proposto alla mia amica Luciana Littizzetto, che è una autentica mangiapreti, il ruolo che meno si sarebbe aspettato: quello della suora!

Agli attori vorremmo chiedere, infine, in che modo si sono relazionati all'idea di recitare in carcere con veri detenuti.

Kasia Smutniak: Non ho cercato di immaginarmi niente prima di mettere piede in quel mondo, dove non ero mai stata prima. Nonostante ciò, le perquisizioni all'ingresso e i cancelli che mi si chiudevano dietro hanno creato uno stato d'animo tale, che all'inizio cercavo soltanto di mantenere un basso profilo, manifestando già una certa chiusura. Per fortuna la naturalezza con cui mi sono venuti incontro alcuni detenuti, la semplicità con cui mi salutavano quei ragazzoni dal fisico imponente, mi ha fatto arrossire della diffidenza iniziale ed è servito a rompere il ghiaccio.

Fabio Troiano: Quanto a me pensate che sono pure un po' claustrofobica, al mio arrivo sentivo già parecchia ansia. Senza farsi troppi problemi Davide Ferrario mi ha affidato subito ad uno di quei carcerati definiti "socializzanti", scelti tra coloro che sono soggetti a lunghe pene detentive, perché mi facesse da guida nei vari ambienti del carcere. Ebbene, durante la visita lui è stato capace di dialogare con me come se fossi realmente il direttore del carcere, aiutandomi così ad entrare nella parte e correggendomi quando dicevo qualcosa che un vero direttore non avrebbe mai detto!