Recensione Mio fratello è figlio unico (2007)

Colpisce la freschezza e la genuinità con la quale l'ultimo film di Luchetti affronta un periodo, quello degli ideologizzati anni '60, mai veramente pacificato nelle coscienze degli italiani e nel dibattito pubblico della penisola.

Compagno camerata

I meravigliosi anni '60. Quando si correva in calzoni corti per le strade nei pomeriggi di primavera, senza paura di quei due tre motori che a malapena passavano in un'ora borbottando nei placidi cofani delle 500. Gli anni della televisione, gli anni della famiglia ancora (quasi) patriarcale. Gli anni degli operai, delle fabbriche, della sindacalizzazione.
Ma soprattutto gli anni dell'impegno politico, dei dibattiti in sezione e delle scazzottate in piazza, dei grandi discorsi, così spesso privi di senso, e delle piccole marchette, dell'odio del nemico e del rispetto per l'avversario, di Almirante e di Ingrao, di Michelini e di Berlinguer.
Gli anni dei fascisti e dei comunisti, insomma.
Daniele Luchetti, dopo aver cinicamente immerso il proprio pubblico nella democrazia in disfacimento degli anni '80 con Il portaborse, si tuffa con tutt'altro piglio, con una punta di percepibile nostalgia, di tangibile affetto, nella drammatizzazione cinematografica di un libro di Antonio Pennacchi, dal titolo sorprendentemente emblematico, Il Fasciocomunista, la storia di un ragazzo che quegli anni li passa in cima alle barricate, prima su quella nera e poi, convertitosi, in cima a quella rossa.
Il regista lavora sul materiale letterario, lo fa suo, e lo ricalibra in funzione del rapporto tra due fratelli, Manrico, interpretato da Riccardo Scamarcio, operaio comunista dal piglio del leader, del capopopolo, e Accio, le cui vesti sono assunte prima dal sorprendente Vittorio Emanuela Propizio, nella parte che lo ritrae adolescente, poi dal bravo Elio Germano, in uno dei ruoli forse più freschi ed intensi della sua carriera.

Dietro le quinte strutturano una sceneggiatura agile ma solida i veterani Stefano Rulli e Sandro Petraglia, disegnando un personaggio, quello di Accio, che, grazie anche alla bravura degli interpreti, risulta uno dei meglio scritti dell'ultima stagione.
Il film parte così in modo convincente, impressione che si consolida man mano, grazie ad un lavoro di scrittura e ad una semplicità di messa in scena che imprimono dinamicità e tengono alla larga da qualsiasi possibile stereotipo narrativo.
Si riesce a trattare, così, in modo diretto e privo di ellissi il personaggio di Accio, vero mattatore di tutta la pellicola. Il suo essere fascista missino (splendidamente autoironico il suo 'maestro' di strada, Luca Zingaretti) è solo un amplificatore della sua condizione umana, di adolescente e ragazzo in cerca di attenzioni, pieno di voglia di vivere da incanalare a tutti i costi, condizionato dal rapporto con un fratello più considerato, affabile, bello, e soprattutto politicamente agli antipodi, comunista. Come se non bastasse si insinua sottotraccia una sottile infatuazione per la ragazza di lui (la sorprendente Diane Fleri, che, pur essendo al suo primo lavoro di una certa importanza, sostiene il primo piano come una veterana) che ben presto diventa vero e proprio amore.

La forza del film è il taglio scanzonato, la ricerca sulle dinamiche familiari (splendida la mamma interpretata da Angela Finocchiaro), il lavoro sugli affetti e sui sentimenti. La politica diventa così pretesto narrativo, appendice mai affrontata troppo seriamente, ma mai ridicolizzata.
Lucchetti costruisce un film personale, giudicando anche contesto ed epoca, ma non essendone ossessionato né cercando un affrancamento da quel modo di vivere e di concepire la realtà, anzi, avendone un vago senso di nostalgia. Eppure rimane la certezza e la convinzione che lo schema ideologico, se può essere un buon palliativo delle pulsioni giovanili, non è soluzione adeguata all'uomo. Lo dimostra la fine così diversa dei due fratelli; l'uno, Manrico, avviluppato nella disastrosa stagione del brigatismo, l'altro, Accio, autore dell'occupazione di alcune case popolari, primo vero e proprio gesto deideologizzato della sua vita, frutto della innato desiderio di esser d'aiuto agli ultimi, unito al rapporto, ritrovato, con la propria famiglia.
All'apertura delle crepe nella vecchia, decrepita casa, corrisponde la ricomposizione di quelle del cuore e dell'anima. Eppure il film non ha la pretesa di essere definitivo, conclusivo. Apre, semmai, ad un nuovo inizio.