Recensione Nella morsa del ragno (2001)

Ripetitivo thriller psicologico che di thrilling ha davvero ben poco e di psicologico solo la patologica e preoccupante mancanza di fantasia si molti sceneggiatori e registi di Hollywood.

Cinema 'clonato': l'ennesimo serial-thriller.

Quanto tempo ci vuole per scrivere una sceneggiatura? Due mesi? Tre mesi? Un anno? Ebbene, se il copione di Nella morsa del ragno avesse impegnato il suo autore per più di due... ore, ci sarebbe da non crederci. E anche da preoccuparsi. Prendete un poliziotto anziano, depresso a causa della morte di una stimata collega, aggiungete una bambina rapita da uno squilibrato, mescolate il tutto nello svolgimento più convenzionale, lacunoso e improbabile che si possa immaginare e avrete (con qualche approssimazione) il copione di Along came a spider. Non è possibile andare oltre nel riferire la trama del film, metterei a repentaglio l'efficacia (?) di quei due-colpi-di-scena-due sui cui si regge la vicenda, rovinando anticipatamente la visione del film. Fermo restando che esistono innumerevoli altri modi di scialacquare dodicimila lire.
Nella morsa del ragno, in ogni caso, è reso meno difficile da accettare grazie alla presenza (e non semplice "partecipazione") di un attore di carisma come Morgan Freeman, il quale offre una buona prova, con un'interpretazione misurata ma ricca di sfumature. "Ognuno deve dedicarsi a quello che sa fare meglio" recita il suo personaggio, l'anziano detective Alex Cross, durante il film. E Morgan Freeman è un attore capace, su questo non ci sono dubbi. Però le motivazioni puramente "alimentari" troppo spesso prevalgono su qualsiasi altra considerazione, costringendolo a sciuparsi in queste produzioni dozzinali e inutili. Sì, Nella morsa del ragno è un film "dozzinale" nel più genuino significato del termine e nemmeno fior di tecnici dal passato glorioso come Jerry Goldsmith (colonna sonora) e Matthew F. Leonetti (fotografia) possono fare miracoli quando il materiale di partenza è così modesto.
Per non parlare della regia. Cos'è rimasto del neozelandese Lee Tamahori, regista rivelazione di Once were warriors - Una volta erano guerrieri (1995) e ormai irrimediabilmente fagocitato dall'industria hollywoodiana (suo il prossimo 007)? Pochissimo, forse nulla. Alle malefatte dello sceneggiatore, infatti, qui occorre aggiungere l'indolenza di un regista assolutamente svogliato e disinteressato che confeziona un paio di buone sequenze (l'appostamento notturno sotto la pioggia e la corsa a piedi per la consegna del riscatto), peraltro non eclatanti, senza però allontanarsi con sufficiente convinzione da uno stile tristemente televisivo.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la presente Corte dei Diritti del Cinefilo assolve Morgan Freeman e i tecnici per non aver commesso il fatto. La Paramount Pictures, il regista Lee Tamahori e lo sceneggiatore Marc Moss sono invece ritenuti colpevoli di aver consapevolmente realizzato un film noioso, prevedibile e troppo disinvolto nelle sue incongruenze logico-narrative, nonché di aver subdolamente "confezionato" l'ennesimo serial-thriller profittando della buona fede e delle aspettative del pubblico. Gli imputati sono dunque condannati al risarcimento dei danni, stimati in lire dodicimila per ciascun spettatore pagante, e alla visione reiterata di Seven e Il silenzio degli innocenti.
Così deciso, l'udienza è tolta.