Recensione Keyhole (2011)

Un'opera tanto libera e appagata da sé stessa quasi non richiederebbe un pubblico che la possa apprezzare ed in effetti resta lì, immobile nonostante le immagini fantasmagoriche.

Canadian Horror Story

Quando il gangster Ulysses Pick torna a casa dopo un lungo periodo di lontananza, sembra che si stia rifugiando in un posto sicuro, in fuga dai pericoli del mondo esterno. Fuori c'è la tempesta, dentro, solo apparentemente, la tranquillità data dalla presenza degli altri componenti della sua banda. Ulysses porta con sé Denny, una ragazza tornata alla vita dopo essere annegata, e Manners, un giovane legato e imbavagliato che in realtà è suo figlio. Lo scopo dell'uomo è quello di raggiungere la moglie Hyacinth, rinchiusa in camera da letto. E per poter comunicare con lei Ulysses potrà solo parlare attraverso il buco della serratura.

Quello di Guy Maddin, regista canadese tra i più apprezzati per le atmosfere oniriche dei suoi lavori, può sembrare a prima vista l'astrusa opera di un artista che reinterpreta attraverso uno stile unico e totalmente antinaturalistico, il dolore di una famiglia devastata da lutti e segreti inconfessabili. Fatta salva l'assoluta libertà di un cineasta di mostrare come meglio creda questi 'materiali' magmatici, Keyhole, presentato nella sezione Berlinale Special del 62.mo Festival di Berlino, resta un film complesso e di difficile lettura, eccessivamente criptico e chiuso in autoreferenzialità 'poetica' che difficilmente si lascia sciogliere. La casa che fa da sfondo alle vicende della famiglia Pick somiglia alla dimora infestata dai fantasmi di American Horror Story, ma i riferimenti linguistici sono ben altri; con un protagonista che si chiama Ulysses, interpretato da Jason Patric e un enigmatico io narrante che porta il nome di Calypso, non si impiega molto tempo a pensare all'Odissea di Omero come cardine attorno cui far ruotare il lungometraggio. A differenza del poema epico, però, qui non c'è il mare a rendere periglioso il viaggio dell'eroe, ma i piani e i differenti ambienti della sua grande casa, dove 'approda' dopo una non meglio precisata assenza. La moglie Hyacinth (Isabella Rossellini) quasi un'ombra la sua presenza, vive rinchiusa in camera da letto, affiancata dal vecchio padre nudo e in catene, struggendosi per la morte dei figli e per la lontananza del suo adorato Manners (come l'attore canadese che figurò nel Dracula di Tod Browning).
La visione di luoghi familiari come il salotto, la cucina o il bagno, provocano nel protagonista reazioni inaspettate, in pieno accordo con una delle ispirazioni di Maddin, il libro del fenomenologista francese Gaston Bachelard, La poesia degli spazi. Se è vero che la casa è quel luogo dove nasce la poesia, intesa come unione spirituale tra uomo e realtà, allora l'abitazione può essere anche il palcoscenico angustiante dove gli incubi e i fantasmi prendono corpo. Un meccanismo che Maddin testimonia in un bianco e nero di rara bellezza e attraverso ricchissime sequenze immaginifiche, alcune delle quali molto difficili da sostenere, che riportano direttamente al grande cinema sperimentale americano degli anni '60. In un gioco di rimandi continuo tra ciò che è reale e vero e quello che è invece ricostruzione fittizia (forse patologica), i personaggi vengono schiacciati e appiattiti in un tempo che non lascia speranza, un tempo che rinnega la linearità per avvitarsi su sé stesso in un eterno e angosciante presente. Un'opera tanto libera e appagata da sé stessa quasi non richiederebbe un pubblico che la possa apprezzare ed in effetti resta lì, immobile nonostante le immagini fantasmagoriche; come un invito ad un masochistico spettacolo in cui si fa la fine del topo con il gatto. Sarebbe tanto anche per il più accanito dei cinefili.

Movieplayer.it

2.0/5