Recensione Quella sera dorata (2009)

Nel confezionamento del film, il regista americano mantiene la sua innata eleganza, fatta di accenni, di rifiniture e di un conferimento ai dialoghi di una sacralità d'altri tempi, lasciando che il suo film scorra su un binario classico che porti infine all'esplosione finale del sentimento

Cambiare il destino frantumando l'universo

Sembra un valzer Quella sera dorata, romanzo di Peter Cameron datato 2002, capace di far danzare il lettore tra un gruppo di personaggi splendidamente caratterizzati, impegnati in una difficile resa dei conti col passato e in un serrato confronto con l'altro, nonostante posizioni di partenza apparentemente inattaccabili. A dare il via alle danze è l'arrivo in un Uruguay immaginario di un giovane ricercatore interessato a scrivere la biografia di uno scrittore, autore di un unico libro prima di morire suicida. L'uomo bussa a sorpresa alla porta dei Gund, la famiglia dello scrittore, che si rifiuta di concedere l'autorizzazione alla stesura della biografia. Ne fanno parte la moglie Caroline, una pittrice fallimentare austera e inaridita dalla vita, l'amante Arden, ancora sensibile ai sussulti del cuore, e il vecchio fratello omosessuale, che coinvive in un mulino poco distante dalla tenuta dei Gund con il compagno giapponese Pete, sensibilmente più giovane. Per la sua trasposizione del romanzo su grande schermo, l'americano James Ivory mantiene il canovaccio dell'opera originale ma la sua fidata sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala, responsabile dell'adattamento, apporta una serie di modifiche non sempre condivisibili (la rimozione delle reali motivazioni del rifiuto di Caroline e di tutto quello che ne consegue è davvero imperdonabile) che spostano il cuore della storia dal passato al futuro, con una più evidente e shakespeariana riflessione in materia di destino.

Nel confezionamento del film, il regista americano mantiene però la sua innata eleganza, fatta di accenni, di rifiniture e di un conferimento ai dialoghi di una sacralità d'altri tempi, lasciando che il suo film scorra su un binario classico che porti infine all'esplosione finale del sentimento. Ivory lavora essenzialmente di sottrazione, andando a limare ogni possibile spigolo che devii l'attenzione dal momento in cui si svolgono gli eventi, senza perdere però quella tensione alla commedia ben presente nel libro, che da ossigeno a una storia dal gusto retrò che in mani sbagliate rischiava la galleria di macchiette. La dottrina dell'essenzialità si esprime anche nella scelta di una colonna sonora discreta e minimale, poco utilizzata per concedere il giusto spazio ai silenzi, ai rumori della natura e per esaltare i dialoghi brillanti. Per sua fortuna, gli interpreti chiamati a dar credibilità e intensità alla storia sono cavalli di razza, su tutti sir Anthony Hopkins si cuce a meraviglia sulla lingua le battute di un uomo raffinato che sa masticare con scaltrezza il paradosso, Laura Linney è una sublime donna di ghiaccio il cui unico limite sta nella sventurata decisione in fase di sceneggiatura di mutilarne le motivazioni che la spingono a comportarsi in un certo modo.
In The City of Your Final Destination il territorio uruguayano (il film però è stato girato in Argentina) prova a farsi parte integrante della vicenda, espressione di un ambiente nello stesso tempo ostile eppure affascinante. Seppur ragguardevole nella sua durata, che sfiora le due ore, l'opera di Ivory non ha il tempo di fornire a ciascuno dei personaggi (che nel romanzo di Cameron si ritagliavano il proprio spazio in un continuo ed appassionante mutamento del punto di vista principale) la sua adeguata dimensione, lasciando nell'ombra o semplicemente tralasciando quegli accenti fondamentali a penetrarli in profondità. La scelta di mantenere i toni in una leggerezza costante riesce a dare una sua direzione al film, che risulta davvero mal gestito soltanto nella parte finale, così finemente affrontata da Cameron nel suo romanzo. Il film di Ivory va infatti incontro a un inesorabile sfaldamento, incapace di dare calore e continuità a una sequela di avvenimenti consumati in maniera fin troppo rapida e frammentaria. Perso completamente l'universo di Caroline e dei suoi fantasmi, la Prawer si arena in un sentimentalismo corretto, ma poco ficcante, senza essere in grado di definire con destrezza l'accelerazione improvvisa verso gli happy ending delle singole storie. E lo straniero che era arrivato a mettere in crisi un universo chiuso composto di galassie dissimili, rimane per lo spettatore uno sconosciuto, un uomo il cui cambiamento, con il relativo recupero delle redini del proprio destino e capace di portare gli altri a fare lo stesso, ci viene sbattuto in faccia senza averlo adeguatamente preparato. Se il film, pronto da due anni, ancora giace nel suo magazzino un motivo forse ci sarà.