Recensione Paradiso + Inferno (2006)

Incapace di affrancarsi da qualsivoglia cliché rappresentativo Candy racconta, attraverso l'abusata circolarità della narrazione, una storia davvero già vista troppe volte per appassionare.

C'è vita e cinema dentro una siringa?

Per la critica è usanza acquisita quanto arbitraria quella di trovare dei temi ricorrenti nei film presentati ai grandi festival. In questa Berlinale 2006, l'esercizio rischia di farsi arduo vista la pochezza e l'eterogeneità dei titoli fin qui visti. La cosa si farebbe più facile però se azzardassimo una chiosa maligna ma forse leggittima, qualcosa del tipo: l'elemento in comune della selezione di quest'anno è decisamente l'inutilità stessa dei film, la loro tragica inoffensività. Esclusioni eccellenti si intende, ma si contano sul palmo di una mano, storpia probabilmente. Quando i film non sono brutti difatti sono carini, quando non sono anonimi sono gradevoli: tutti aggettivi che fanno male al cinema e a chi lo ama.

L'esordio alla regia di Neil Armfield con il suo Candy non si discosta minimamente da questa condizione, anzi ne fa involontariamente o dolosamente una ragione d'essere. Candy è una dolce, attraente ed influenzabile ragazza che affascinata da un giovane e aitante poeta (davvero lei è una pittrice, lui un poeta, da non crederci!) sale in corsa sulla pericolosa giostra della tossicodipendenza. Lo sballo non è mica da poco: d'altronde i due si amano davvero, lavorare è un concetto troppo borghese e la progettualità non fa al caso loro. Allora rubacchiano, se la spassano dal solito ricco, cinico, gay, nichilista di turno (un Geoffrey Rush abbastanza imbarazzante), fingono di essere una famigliola un pò sconclusionata ma affiatata con i genitori di lei (la mamma è cattiva e critica, il padre affettuoso e speranzoso, ma basta!) e tirano avanti fino a quando lei non si trova costretta a fare qualche marchetta (eh si, proprio così, altra trovata rivoluzionaria!) per le necessità tossicologiche di entrambi. La situazione sfugge di mano e le cose non sembrano più andare come dovrebbero, in estrema sintesi iniziano i litigi. Lei diventa aggressiva, lancia posaceneri e prospetta che anche lui svenda il suo sacro didietro per mettere le cose in pari. Lui è più pacato, quasi compassato, ma rigetta l'allettante proposta. Piuttosto truffa un idiota e fa un bel gruzzolo. Non se lo gode però perchè lei è improvvisamente incinta (ma dai, poteva mancare la gravidanza!) e quindi è decisamente tempo di uscire dal tunnel. Iniziano le crisi d'astinenza con tutti i particolari del caso, fino alla tragica perdita prematura del figlio. Il resto però scopritevelo voi, se avete sufficiente pazienza.

La lunga gavetta televisiva non fa (almeno per il momento ma diamogli il beneficio del dubbio sul suo futuro) di Armfield né un mestierante con le idee chiare, né un giovane promettente, Nè tantomeno un autore. Piuttosto gli porta in dote una certa retorica essenzialità - tradita però troppo spesso da improvvisi enfatismi vuoti e ridondanti - ed un certo naturalismo della messa in scena, tutto fatto di fuori fuoco e sciattezza fotografica, convenzionale e stucchevole. Incapace di affrancarsi da qualsivoglia cliché rappresentativo il suo film racconta, attraverso l'abusata circolarità della narrazione, una storia davvero già vista troppe volte per appassionare. Non bastano quindi un paio di colpi bassi ben assestati durante il solito interminabile calvario della disintossicazione, quantomeno le faccine piacevoli di Heath Ledger e Abbie Cornish, per elevare dalla mediocrità un film che scorre liscio ed inerme senza guizzi o sussulti e che ci lascia del tutto indifferenti. C'è reazione emotiva peggiore per tale storia?