Black Mirror 4, Metalhead: apocalisse grigia

Scarno, serrato, spiazzante nel suo essere atipico, il primo episodio in bianco e nero della serie è un esercizio di genere che gioca in bilico tra l'horror e desolanti scenari post-apocalittici.

Black Mirror: Maxine Peake in una scena dell'episodio Metalhead
Black Mirror: Maxine Peake in una scena dell'episodio Metalhead

Dei maiali è rimasto solo il letame. Il mondo è svuotato, arido, talmente privo di vita da aver perso ogni sfumatura di colore. Esistono solo il bianco e nero, divisione netta che esprime bene la dittatura silenziosa di una realtà binaria: accesso o spento, umano o macchina, vivo o morto. Altro non ci è dato sapere. Parte così Metalhead, in medias res, ambientato in un posto qualsiasi dentro un'epoca qualsiasi, con tre persone alla disperata ricerca di qualcosa per salvare qualcuno. Non esistono ulteriori coordinate sul senso e sul fine della loro missione, perché sappiamo solo quello che ci viene mostrato. Sappiamo che gli esseri umani vivono come vagabondi e predoni, sopravvissuti a chissà quale apocalisse, cercando oggetti e scarti utili ad andare avanti. E poi, capiamo presto la cosa più importante di tutte: il mondo è vigilato da dei robot spietati, stramba via di mezzo tra un cane e uno scarafaggio, pronti a far saltare le cervella a chi capita a tiro. Sono controllati da qualcuno? Sono autonomi? Chi li ha creati? E perché? Come detto, non ci saranno risposte.

L'unica, gentile concessione del quinto episodio della quarta stagione di Black Mirror è quella di catapultarci in una serrata e spietata caccia all'uomo (o meglio, alla donna) quasi muta, dominata solo da affanni, sguardi spaventati e dai rumori meccanici degli inesorabili quadrupedi robotici. Non ci resta che partecipare all'inseguimento senza sperare di comprendere le motivazioni degli umani e il settaggio delle macchine.

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Black Mirror: una scena con Mazine Peake nell'episodio Metalhead
Black Mirror: una scena con Mazine Peake nell'episodio Metalhead

Alien 2.0

BM4
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Predatori e prede. Cacciatori e selvaggina. Da una parte lo spavento e l'oppressione del fiato sul collo, dall'altra la furia cieca e immotivata. Uno spunto narrativo semplice, atavico come le abitudini dell'uomo primitivo, capace di affascinare anche giovani, grandi, futuri registi come Steven Spielberg e Ridley Scott. Metalhead parte da presupposti non molti diversi da quelli di Duel e di Alien, dedicando i suoi 40 minuti ad una storia scarna, serrata ed essenziale, tutta giocata su una messa in scena curatissima. La regia di David Slade (Hard Candy, 30 giorni di buio, Breaking Bad) alterna con sapienza un'isteria frenetica a momenti di decompressione; il tutto sostenuto da un montaggio efficace e da una fotografia funzionale al racconto, che confezionano un episodio formalmente ineccepibile. Ispirato a dei video della società di ingegneria e robotica Boston Dynamics, che produce robot quadrupedi per l'esercito americano, Metalhead conferma un'esigenza della quarta stagione di Black Mirror: etichettare ogni episodio con un genere ben definito. A metà strada tra l'horror e le derive tipiche del post-apocalittico, Metalhead si affanna ed esplode in sprazzi di violenza, eppure non fa mai davvero male.

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Distopia, portami via

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C'è modo e modo di essere "spiazzante", aggettivo sicuramente abusato (a giusta ragione) quando si parla di Black Mirror. La serie britannica ha trovato proprio nel suo essere respingente e mai rassicurante il suo amato tratto distintivo, un'unicità che Metalhead ridefinisce attraverso il tradimento. Siamo spiazzati, sì, perché questo non ci sembra Black Mirror. Siamo spiazzati, vero, perché l'angoscia ha cambiato i suoi tempi. In questa serie la paura e l'ansia non duravano mai quanto un solo episodio, ma andavano oltre la visione, rimanevano addosso, come muchi vischiosi e maleodoranti con cui eri costretto a fare i conti. Questa volta no. Questa volta Charlie Brooker preferisce lo "spavento usa e getta", sobbalzi, angoscia a scadenza breve, dimenticando volutamente un altro ingrediente della sua pietanza indigesta: la distopia. Questa volta manca il contesto, manca un disegno più ampio che racconti assetti sociali e contraddizioni umane. Questo succede soprattutto a causa di una scelta ben precisa, ovvero quella di contrapporre in maniera così netta l'uomo alla tecnologia. Una semplificazione piuttosto ingenua che tradisce la visione autoriale di una serie che ha sempre intrecciato umanità e macchina, cervelli e ingranaggi in un unico, indissolubile ibrido. Per tutti questi motivi, crediamo che Metalhead sia l'emblema di una serie che si guarda allo specchio e, ogni tanto, non si riconosce più.

Movieplayer.it

2.5/5