Bellaria 2011: lunga vita al documentario

Un'edizione di successo, sia dal punto di vista dell'affluenza di pubblico che da quello dei contenuti, la prima a cura di Fabio Toncelli, che sottolinea come il panorama documentaristico sia in grande fermento, teso a fare propri nuovi linguaggi e nuove tecnologie.

Alla sua prima esperienza come direttore artistico, Fabio Toncelli si può certamente dichiarare soddisfatto di queste ventinovesima edizione del Bellaria Film Festival. Nonostante il bel tempo, in molti hanno disertato le spiagge per affollare le sale cinematografiche della cittadina romagnola, ma anche gli spazi della biblioteca, sede dei tanti workshop organizzati. Se i partecipanti, invogliati dalla lettura del programma, speravamo di raggiungere in poche ore la padronanza della tecnica stereoscopica o dell'editing video, si sono però dovuti ricredere; i relatori hanno sì fornito interessanti indicazioni operative, ma senza mai minimizzare l'impegno necessario a dare vita a un'opera di qualità, disincentivando la politica del fai-da-te e dell'approssimazione.

E' stato il festival del futuro, delle nuove tecnologie e dei nuovi media, grazie ai quali abbiamo scoperto opere di grande slancio e originalità espressiva, come la vincitrice del concorso Crossmedia, Welcome to Pine Point, ma è stato anche il festival della riscoperta, della rinnovata attenzione per il documentario radiofonico, grazie al quale il pubblico ha vissuto momenti di forte suggestione.
La scelta di aprire le porte anche a documentari già presentati presso altre manifestazioni si è rivelata vincente. La contenuta perdita in termini di esclusività è stata infatti ampiamente compensata dal risultato: un programma ricco, eterogeneo e dalla forte portata innovativa. Pur nell'estrema varietà dei temi trattati, è possibile ritrovare un filo conduttore nella volontà di raccontare storie rese invisibili dalla lontananza nel tempo, nello spazio, nel cuore. I due documentari più spiccatamente storici, L'altra rivoluzione, Gorkij e Lenin a Capri, e L'ultima battaglia delle Alpi, aggiungono un tassello importante alla nostra comprensione del presente, mostrandoci un lato inedito degli uomini che hanno contribuito a forgiarlo. Ma sono le storie di ribellione, di riscatto, di emancipazione che più hanno toccato la sensibilità del pubblico. Pink Gang, A Mao e a Luva, Almost Married, Good Buy Roma suggeriscono che, forse, con la dedizione e la volontà di superare scetticismo e diffidenza, e più di tutto l'ostruzionismo di chi ha interessi nel mantenere lo status quo, un mondo diverso è possibile.

Condizione necessaria di questo cambiamento è la consapevolezza del grande lavoro che rimane ancora da fare, e non è un caso che la pellicola vincitrice, This is My Land... Hebron, parli proprio di una frattura che sembra tanto più insanabile in quelli che sono i suoi aspetti più quotidiani. Il profondo senso di ingiustizia che allontana l'individuo dalle istituzioni sottende anche altre opere, presentate nella sezione Panorama Internazionale, in cui è ancora protagonista la questione arabo-israeliana, con Jaffa: the Orange's Clockwork e il toccante Love During Wartime, ma anche l'altrettanto scottante dibattito post undici settembre, con The Oath. Il fascino delle immagini, inquietanti e potenti, di Iron Crows e Into Eternity è stato il veicolo per una riflessione amara sulla nostra civiltà e sulla sua eredità culturale e morale: una civiltà che anche nel suo rapporto con l'arte dimostra di avere ancora molto da imparare, nell'irriverente e ironico reportage a cura di Banksy.

Il particolare che più ha reso evidente la necessità di spazi di espressione per il cinema indipendente è stato il forte coinvolgimento del pubblico. Se in occasione del tributo a Ennio Flaiano l'affluenza si poteva prevedere vasta, anche grazie alla presenza di un ospite di spicco come Enrico Vaime e all'irresistibile attrattiva che il pettegolezzo, come quello che sancì la fine dell'amicizia tra l'intellettuale e Fellini e che costituiva lo spunto del documentario di Rolandi e Della Casa, può vantare sul pubblico, sorprende positivamente la partecipazione all'appuntamento dedicato a una pagina di storia ancora considerata tabù come quella delle foibe. Il documentario realizzato da Roberto Olla ha infatti dato vita a un confronto animato sul valore della memoria e sugli snodi etici relativi alla divulgazione storica, oltre a una discussione relativa alla decisione di fare uso della stereoscopia, che continua ad apparire, tanto per il contesto quanto per la realizzazione tecnica tutt'altro che perfetta, quantomeno discutibile.

In questi quattro giorni si sono poste tutte le premesse per una trentesima edizione volta a dimostrare, ancora una volta, che l'universo del documentario è sempre più vitale, nell'interesse del pubblico e nella spinta creativa dei suoi artefici. Detto ciò, rimane condivisibile il suggerimento di Giulio Scarpati, presidente della giuria, volto a una riapertura verso il cinema indipendente di ogni genere, anche in modo da, eventualmente, correggere il tiro in direzione dell'unico appunto avanzato dal direttore Toncelli: una certa difficoltà nel raccontare l'Italia. Per quanto l'applauditissimo (e premiato) My Marlboro City abbia dimostrato che con l'energia e l'emozione giusta molto si può fare, anche a casa nostra.