Recensione Gioco di donna (2004)

Gilda è una figura totalizzante, ribelle, sexy, sfuggente, volitiva, al tempo stesso nobile e meschina. Tutto intorno a lei può risplendere della sua luce, tutto può esserne oscurato. L'onesta regia di John Duigan attinge a piene mani al talento e al carisma della sua diva, spendendo tutto ciò che di lei c'è da spendere.

Amore e guerra

In una notte tempestosa del 1933, Guy Malyon sta lavorando alla sua scrivania nella sua stanza di college quanto, bagnata fradicia, fa irruzione all'interno una bellissima donna. Metà francese e metà americana, Gilda Bessé è riuscita per un pelo a non essere scoperta nell'alloggio del suo ragazzo, uno degli anziani di Cambridge.
Malgrado provengano da mondi completamente diversi, i due sono irresistibilmente attratti l'uno dall'altra. Guy, un idealista, fa del suo meglio per condividere e avvicinare lo stile di vita frivolo ed edonistico di lei.
Non rassegnato all'idea di perderla, la raggiunge a Parigi tre anni più tardi e condivide con lei e con la sua amica e modella spagnola Mia un appartamento bohemienne a Montmartre.
A far da sfondo alla loro travagliata storia d'amore, la guerra civile contro le truppe di Franco che infiamma la Spagna, i Tedeschi che occupano la Francia, gli alleati che liberano Parigi. Attraverso un lungo viaggio nel sangue, nel dolore, nel tradimento e nella passione, i destini dei tre amici amanti si compiono.

In principio è una profezia, che una chiromante riluttante e spaventata fa a una Gilda ancora adolescente, sul suo trentaquattresimo anno. Da una parte un utile espediente per proiettare l'attenzione dello spettatore in una dimensione di attesa tragica, dall'altra un inutile orpello goticheggiante che suscita una tensione melodrammatica posticcia e artificiosa.

Gilda è una figura totalizzante, ribelle, sexy, sfuggente, volitiva, al tempo stesso nobile e meschina. Tutto intorno a lei può risplendere della sua luce, tutto può esserne oscurato. Desiderosa di esplorare ogni possibilità, favorita in ciò dalla sua avvenenza e dalla considerevole ricchezza, rifiuta di assumere qualsiasi responsabilità nei confronti del mondo pur ostentando una certa coerenza. Tutto intorno a lei brilla di luce riflessa, i personaggi agiscono e decidono solo in rapporto a lei, la Storia stessa sembra messa lì per metterla alla prova. Il giovane Guy compie immani sforzi per compiacerla, attraversa penosi turbamenti supera grandi distanze, ma tutto ciò che conta, più che cosa lui sia diventato, è come Gilda lo vedrà, cosa penserà di lui.

Charlize Theron regge il peso di cotanto carattere con una perfetta aderenza. Algida, imperscrutabile, sottile nei sorrisi, generosa negli slanci. Se non ci fosse lei, coi suoi capelli lucenti e i boccoli ornati di riflessi come in un quadro della De Lempicka, a ricordarci allo stesso tempo l'erotica grazia della ragazza dello spot Martini e la sofferenza della protagonista di Monster, se non ci fosse lei forse il film non funzionerebbe. Ma la Theron c'è: con merito e dignità, l'onesta regia di John Duigan attinge a piene mani al talento e al carisma della sua diva, spendendo tutto ciò che di lei c'è da spendere.

Più incerto e confuso il personaggio di Mia, la modella interpretata da Penelope Cruz. Gelosa, politicamente impegnata, rejetta, picchiata, seducente, coraggiosa. Un eccessivo realismo e una multidimensionalità che mal si accordano alla grandezza monolitica di Gilda (un nome che nel cinema già da solo evoca qualcosa). La scena di amore lesbico è telefonatissima e superflua.

Il finale risente pesantemente dell'influsso del prologo di cui sopra. Nulla si fa per farlo dimenticare; l'avvicinarsi della data fatidica, invece di instillare il pathos che accompagna il compiersi del destino dell'eroe produce solo una vistosa e artificiosa accelerazione degli eventi.