Recensione Oasis (2002)

Due vite, due solitudini, due outsider il cui incontro cambierà completamente la vita di ognuno: un film sorretto da un equilibrio magico, che affronta senza retorica un tema difficile come quello dell'handicap.

Amore e diversità

Quello dell'handicap è da sempre un tema abbondantemente frequentato dalla settima arte: solo negli ultimi decenni, tra i film dedicati all'argomento ci sono stati grandi successi hollywoodiani come Rain Man o Risvegli, o opere più "di nicchia" e personali come il francese L'ottavo giorno o il recente, spagnolo Mare dentro (diretto da un regista finora ligio ad altre atmosfere come Alejandro Amenabar). A parere di chi scrive, però, nessuna opera che si sia cimentata con questo difficile tema è riuscita a toccare le vette di lirismo, rigore, visionarietà unita a realismo, durezza mista a dolcezza di questo splendido Oasis, film coreano diretto dal regista Lee Chang-dong e insignito di due premi al festival di Venezia del 2002, quello per la miglior regia e quello per la migliore attrice protagonista, la straordinaria Moon So-ri.

Il film di Lee narra, in modo semplice e diretto, la storia di due solitudini che si incontrano, due "invisibili", outsider per natura, che vengono a contatto e imparano a conoscersi e a trarre gioia dalla presenza reciproca: il giovane Jong-du, sbandato appena uscito dal carcere per omicidio colposo, e la disabile Gong-ju, figlia dell'uomo di cui Jong-du è stato accusato di aver causato la morte. L'incontro è traumatico, inizialmente non facile ma inequivocabilmente portato a cambiare la vita dei due: Jong-du è immediatamente attratto da questa ragazza dolce, abbandonata a sé stessa dal fratello e dalla cognata, che si è creata un proprio stralunato mondo, un mondo in cui la luce riflessa da uno specchio può trasformarsi in una colomba che si aggira per la casa e in cui i pulviscoli di polvere della stanza diventano magici frammenti di luce. Gong-ju, da parte sua, impara a conoscere e ad amare quest'uomo ingenuo, adolescente mai cresciuto nel cui volto è riflessa la fragilità e il bisogno di contatto umano di chi da sempre vive una vita al di fuori delle regole sociali. Un incontro magico, quindi, che appaga e riempie la vita di entrambi: il mondo immaginario della ragazza ha finalmente un complemento, uno sbocco nella realtà che da par suo rende più dolce la perpetuazione del sogno, in quei magici, onirici momenti in cui Gong-ju si alza dalla sua sedia a rotelle, libera dal suo handicap, e danza, bacia e scherza con il suo uomo. Jong-du entra così nel mondo magico della sua compagna, trasformandolo nel mondo di entrambi, autosufficiente e appagante, un mondo fiabesco in cui chiamarsi reciprocamente con nomi di fantasia ("Generale", "Vostra Altezza"), e in cui una semplice magia del giovane può allontanare il terrore notturno che la ragazza prova per l'ombra di un albero, e "liberare" le figure contenute nel quadro appeso alla parete per poterci danzare insieme. Un "oasi" che dovrà per forza di cose scontrarsi con la realtà, con quella società dei "normali" (rappresentata dalle rispettive famiglie) che non capisce, preferendo giudicare e reprimere qualsiasi comportamento si allontani da schemi mentali predefiniti e castranti: quegli schemi che giudicano "deviante" e pericoloso l'affetto di un giovane per una disabile, e che condannano quest'ultima alla solitudine, impedendole deliberatamente qualsiasi rapporto rientri nella sfera affettivo-sessuale. E' rabbia nera quella che pulsa nella seconda parte del film, quando la minaccia esterna metterà in pericolo la gioia costruita dai due ragazzi, quando l'ottusità dei "normali" cercherà di prendersi crudelmente la sua rivincita.

Era facile, con un soggetto del genere, cadere nella trappola della retorica o dei facili sentimentalismi, gettando al vento una straordinaria occasione: fortunatamente, la sceneggiatura scritta dallo stesso Lee evita tale rischio, riuscendo anzi a creare un equilibrio perfetto, quasi magico, tra crudezza e dolcezza, lacrime e rabbia, realismo e onirismo. Un equilibrio che la splendida regia trasforma in realtà, con immagini forti che colpiscono il cuore e il cervello, e con un coraggio, quello di "entrare" direttamente nella mente della protagonista, unito a quello di mostrare senza falsi pudori una scena di sesso che coinvolga un disabile, probabilmente inimmaginabile per qualsiasi regista occidentale. Ed è giusto, persino doveroso, soffermarsi sulla magnifica prova dei due protagonisti, con un'immensa Moon So-ri che aderisce in modo totale al ruolo, tanto che, se non fosse per le sequenze immaginarie in cui la vediamo libera dall'handicap, non potremmo non pensare ad un'autentica attrice disabile; una prova che trova l'ideale complemento in quella, dolce ed intensa, di Sol Kyung-gu, che restituisce in modo perfetto la fragilità, lo spaesamento e il violento, disperato bisogno di affetto di un personaggio che da subito genera empatia.
Un film da non perdere, quindi, che coinvolge e fa riflettere, commuove senza retorica, ammalia e fa indignare. Un'opera da recuperare dopo il vergognoso trattamento ricevuto in Italia (permanenza nelle - poche - sale in cui è stato proiettato per appena una settimana), un'opera per cui, per una volta, non è azzardato sbilanciarsi e usare il termine "capolavoro".

Movieplayer.it

5.0/5