Recensione L'uomo nero (2009)

Tra il dolore vissuto ieri e le sorprese piacevoli oggi 'L'uomo nero' trova un suo delicato equilibrio nella realtà di una visione accumulata di fantasiose e divertenti memorie fanciullesche e di sogni realizzati tra i sospiri da adulti.

Amarcord rubiniano

Per Sergio Rubini sono passati quasi dieci anni dall'esordio cinematografico con La stazione, che gli valse il David di Donatello come Miglior regista esordiente, eppure le lancette del suo orologio devono essersi messe a fare strani capricci perché hanno preso a scandire il tempo del passato anziché quello del presente. Il gioco gradevolmente retrò (il film è ambientato negli anni '60) e squisitamente romantico (concentrato sul difficile rapporto padre-figli) del regista pugliese non fa però di lui un impenitente nostalgico: il suo tuffo nel passato trova forma tra i binari dell'autobiografia (Rubini è figlio di un ferroviere), tra i ricordi addolciti e inteneriti dell'infanzia e la convinzione che, col senno di "prima", il passato non faccia mai troppo male. Tra il dolore vissuto ieri e le sorprese piacevoli oggi L'uomo nero trova un suo delicato equilibrio nella realtà piuttosto che nell'ucronìa: il cuore del film è infatti in un lungo flashback del protagonista, una visione accumulata di memorie fanciullesche e di sogni fatti tra un bignè e una batosta.

A raccontare la storia è Gabriele Rossetti, uomo distinto interpretato da Fabrizio Gifuni, che fa ritorno nella sua casa d'infanzia per raggiungere al capezzale il padre in fin di vita, l'egoista Ernesto (Sergio Rubini), capostazione e aspirante pittore mozzato da una critica trombona. Gabriele ripercorre la sua infanzia immergendosi e immergendoci in un amarcord sospinto tra l'amara concretezza dei ricordi e l'alone delle fantasie dell'età dell'uomo nero "che lo tiene un anno intero", accompagnato dall'intonatissima musica di Nicola Piovani.
Recupera nel bagagliaio dell'infanzia - filtrata dallo sguardo del piccolo Guido Giaquinto che ricorda il Salvatore Cascio di Io non ho paura - l'immagine dolce, ma mai inzuppata di vacui sentimentalismi, di una madre innamorata, la brava Valeria Golino, qui in un ruolo che sembra ammorbidire con abilità quelle espressioni cupe cui ci ha abituato, una sfida che l'attrice vince a pieno merito, e il piacevole pensiero dello zio Pino, scapestrato trentenne dedito all'edonismo e al voyeurismo spicciolo, mentore di spasso ed esempio di bravate giovanilistiche.

A vestire i panni di questo zio Pinuccio Riccardo Scamarcio, pugliese come il regista (col quale inscena nel film un duetto davvero irresistibile), che sembra perfettamente a suo agio nel ruolo del don Giovanni casereccio e godereccio e un po' meno nella versione invecchiata solo dal trucco e dal parrucco.
Nella positività di questi due personaggi s'insinua la gang dei cattivi di turno, primo tra tutti il padre. Ernesto è l'emblema della lotta, coraggiosa ma soprattutto ostinata fino all'ossessione, al pregiudizio: in un "paese di terroni" prova infatti a inseguire la sua chimera sfidando le rigide architetture culturali e sociali, che ingabbiano i panciuti maestrini, e mette su una mostra con le sue "cose migliori" che rende omaggio a Cézanne, il suo pittore preferito. La spietata stroncatura del critico amico-nemico Venusio del suo "Autoritratto con bombetta" dell'artista impressionista lo affonda in una smania patologica accecandolo di rabbia e facendogli dimenticare di essere anche un padre di famiglia. L'uomo nero che affolla le notti insonni del piccolo Gabriele, che trova poi riparo nella figura di un ferroviere che lancia caramelle ai bambini dal suo treno in movimento, trova le sue protesi visive anche in altri personaggi, oltre al padre assente perché troppo preso da sé: Donna Valeria, una raffinata matrona del nord, tutta moine e smancerie, che si dà arie d'intellettualoide, personaggio che calza a pennello a un'impettita Anna Falchi, e il duo cinico Venusio-Pezzetti (i bravi Vito Signorile e Maurizio Micheli) che giocano al gatto e alla volpe col povero Ernesto.

Le dinamiche relazionali tra i divertenti e vivaci personaggi, ciascuno con un ruolo ben definito e con una psicologia ritratta con cura da Rubini, attraverso la prossemica e i dialoghi, s'incastrano a meraviglia come nella favola collodiana di Roberto Benigni: il piccolo Gabriele sembra sempre in punta di piedi nel suo paese dei balocchi (coccolato dallo zio, di fronte alla bambina al museo, quando si rimpinza di dolciumi, mentre combina un'altra delle sue marachelle con l'amico del cuore), ma quello che gli manca è proprio un adorabile Geppetto che si prenda cura di lui. Il suo grillo parlante è infatti uno zio neanche tanto coscienzioso e la sua fatina è una moglie prima ancora che una madre: Rubini affida così a una scoperta quasi casuale l'happy end che ben si sposa al clima natalizio pronto ad accogliere il film. Sarà un particolare a riportare il sorriso nel pensiero paterno del Gabriele adulto, una rivelazione capace di fare nella sua vita di figlio lo stesso tipo di luce bianca che traspare da quei vicoli presepiali della provincia pugliese, dove pare che il sole sia stato catalizzato dalla spensieratezza dei bambini che giocano a piedi scalzi per strada mentre a casa le loro madri si confidano coi fantasmi dei loro cari.