Recensione Big Boys Gone Bananas!* (2011)

Fredrik Gertten aveva fatto un film, in cui denunciava la Dole per l'uso di pesticidi tossici. Ma alla Dole non andava giù che questo film arrivasse al pubblico, eppure, con un raro esempio di democrazia alle spalle, alla fine il piccolo Davide ha trionfato su Golia.

Altrimenti ci arrabbiamo

Quando si va al cinema, non si è per forza alla ricerca della verità. Anzi, lo spettatore gode nell'essere ingannato, anche perché il vero artista, e questo vale in ambito cinematografico come in qualsiasi altro settore intellettuale, sa usare la bugia, e quindi la fiction, per raccontare la realtà. Ma se un regista sceglie di realizzare un documentario, è evidentemente perché crede che la verità sia più interessante e appropriata di qualsiasi sua rappresentazione, che possa comunicare il messaggio in maniera incisiva di per sé, senza bisogno di sovrastrutture e metafore. Raccontare la verità attraverso un documentario è quello che aveva fatto il regista svedese Fredrik Gertten nel 2009, con il suo Bananas!, in cui denunciava l'uso di pesticidi dannosi per la salute dei coltivatori da parte della Dole, e la battaglia legale contro l'azienda, vinta contro ogni aspettativa grazie alla determinazione dell'avvocato Juan Domínguez. E raccontare la verità attraverso un documentario è quello che Fredrik Gertten fa di nuovo adesso, con Big Boys Gone Bananas!, che testimonia le conseguenze a cui lui e il suo team sono dovuti andare incontro per il semplice fatto di aver pestato i piedi a una multinazionale.

Si, perché il film, al tempo, doveva essere presentato al festival di Los Angeles: peccato che, poche settimane prima della rassegna, a Gertten e agli organizzatori americani venne recapitata una lettera da parte degli avvocati della Dole, in cui si diffidava chiunque dal rendere pubblico il film, in quanto contenente accuse false. Secondo il pensiero degli interessati, Domínguez non era altro che un arrivista in cerca della ribalta internazionale, capace di corrompere decine di lavoratori convincendoli ad accusare l'azienda per la quale lavoravano di una colpa inesistente, al solo scopo di ergersi a paladino degli oppressi. E' quasi inutile sottolineare come alla Dole nessuno si fosse preso il disturbo di visionare il lavoro di Gertten, prima di ritenerlo offensivo o lesivo della specchiata immagine dell'azienda. Ma quello che getta una luce inquietante sull'applicazione pratica del concetto di libertà di parola, e di idee, è l'atteggiamento dei responsabili del festival losangelino, che, sebbene non arrivarono a cancellare la proiezione del film, lo esclusero dalla competizione e si premurarono di leggere un comunicato in cui disconoscevano l'operato del regista, dandogli sostanzialmente del bugiardo, e avallando le proteste della Dole.

La rete diffamatoria dell'azienda americana, però, è ben lungi dal fermarsi a qualche ingerenza sui cinefili: la parte più disturbante del documentario di Gertten è quella che descrive le strategie messe in atto globalmente dalla rinomata agenzia di pubbliche relazioni assunta dalla Dole, che comprendevano minacce non troppo velate alla stabilità finanziaria della produttrice del film, oltre a una guerriglia informatica a base di commenti su blog e siti internet, da parte di utenti fasulli, atti a screditare ulteriormente il lavoro di Gertten e Domínguez, ma soprattutto l'appoggio di firme prestigiose del giornalismo americano che, sotto lauto compenso, acconsentivano a sposare la causa del colosso della frutta, arrivando a paragonare il film svedese a un'apologia del nazismo.

L'ovvio paragone che suscita la vicenda di Gertten è quello con un Davide indomito che combatte contro Golia: e, proprio come l'eroe biblico, anche il regista svedese riuscirà a uscire vincitore dalla propria battaglia. Ma - ed è una riflessione molto amara per gli spettatori italiani, così come quelli di gran parte del mondo - il successo di Gertten è frutto, per buona parte, della sua posizione geografica. A partire dai blog, passando per le catene di fast-food e per i fruttivendoli restii a fare uso di prodotti la cui provenienza era così discussa, e per arrivare a un parlamento in cui la destra e la sinistra hanno ritenuto, concordemente, importante visionare il film e capire il perché della polemica che si trascinava dietro, è stata la democrazia svedese, il suo attaccamento alla libertà di espressione, a mettere all'angolo la Dole. Grazie al rifiuto di farsi piegare da una strategia comunicativa aggressiva e basata sulla menzogna, buona per un'America in cui i giornali e i network sono ormai in balia degli sponsor e le opinioni sono in vendita, la Svezia ha sbugiardato la fondamentale ingenuità di chi crede che tutto si possa comprare, e che non ci sarà nessuno disposto a guardare sotto la superficie delle cose, a chiedersi come mai una grande azienda è talmente interessata a mettere a tacere un piccolo film da arrischiarsi a farsi vedere per quella che è, ovvero una potenza in grado di controllare le informazioni, e che non esita a usare questa possibilità. Se non possiamo che rallegrarci per il futuro dei film di Gertten, è con ben meno ottimismo che immaginiamo la sorte che sarebbe toccata loro se, a difenderli, non ci fosse stato un contesto sociopolitico così poco incline alla semplificazione dei fenomeni, e a lasciarsi imbonire dal profumo dei soldi. Gertten ci insegna, qui, il valore della democrazia e dell'onestà, che è un valore a cui non si può dare un prezzo: è da sperare che questo virtuoso esempio non cada nel vuoto.

Movieplayer.it

4.0/5