Recensione Rosenstrasse (2003)

Margarethe Von Trotta si ispira alla vicenda storica realmente accaduta nella Germania nazista che vide migliaia di donne ariane sostare giorno e notte davanti al palazzo in Rosenstrasse dove erano imprigionati i mariti ebrei, in attesa di essere deportati nei campi di sterminio.

Alluvione

Margarethe Von Trotta torna a raccontare una storia di donne, coraggiose e intraprendenti, legate fra loro da un legame speciale, quale che sia il loro rapporto di sangue o di razza.
Partendo da un avvenimento realmente accaduto, la regista tedesca fa intrecciare le storie di tre donne, Hanna, giovane americana dei giorni nostri (Maria Schrader), Lena, novantenne berlinese e Ruth (Jutta Lampe), madre di Hanna.
La sceneggiatura prende spunto dalla protesta che nel '43, durante la dittatura nazista in Germania, vide protagoniste migliaia di donne ariane che sostavano giorno e notte in Rosenstrasse, davanti al palazzo dove erano rinchiusi i mariti ebrei in attesa di essere deportati.
La Von Trotta dirige con mano sicura, intrecciando passato e presente e seguendo la ricerca di Hanna per scoprire il passato della madre. Infatti l'infanzia di Ruth è rimasta un segreto persino per la sua famiglia. Interrogando Lena, Hanna verrà a sapere che la madre, figlia di un matrimonio misto, vide scomparire l'unico genitore rimastole in una di queste case dell'oblio e venne salvata da Lena stessa, una delle donne-coraggio della Rosenstrasse.
Assistiamo così ad un continuo salto da un periodo storico all'altro, legati insieme da questo scavo alla ricerca di un'esperienza insabbiata, sia nella Storia ufficiale, che in quella personale di Ruth.
La Von Trotta dimostra una notevole tecnica, anche se utilizza un ritmo forse un pò troppo lento. Viene da pensare che però questo rallentamento sia voluto per rendere lo spettatore più partecipe dello stillicidio che le donne della Rosenstrasse dovettero patire per giorni e giorni.
Altro punto a favore per la regista tedesca è la capacità di creare personalità sfaccettate, psicologicamente molto approfondite e con cui lo spettatore entra subito in empatia.
Peccato che però l'autrice punti moltissimo anche sul patetico. Complice un'intensa Katja Riemann nella parte di Lena da giovane (interpretazione che le è valsa la coppa Volpi al Festival di Venezia), il film evita scene di violenza e spinge fortissimo sul pedale del melodramma, perdendo così parte del suo spirito di denucia e ricostruzione storica e trasformandosi nell'ennesimo polpettone lacrimevole.
Tutto considerato il film è gradevole da seguire, anche se dispiace che l'autrice dimentichi la ricerca introspettiva e psicologica che compie sui suoi personaggi per inseguire la lacrima facile. Cosa che peraltro le riesce benissimo. Infatti il risultato è garantito.
Consigliato a tutti quelli che fanno propria la frase:
-Ho pianto tanto. Quanto mi sono divertito!-