Aki Kaurismäki e i piccoli miracoli del cinema

Abbiamo incontrato il regista finlandese in Italia per presentare il suo Miracolo a Le Havre e per ricevere il Gran Premio Torino assegnatogli quest'anno dal Torino Film Festival per celebrare i trent'anni di carriera alle sue spalle e gli altrettanti che lo aspettano in futuro.

Per capire che tipo è Aki Kaurismäki basta guardare in che modo si presenta alle interviste con i giornalisti. Lo abbiamo incontrato nella splendida cornice di Palazzo Torlonia e lui ci ha accolti stringendoci la mano e offrendoci del vino bianco, lo stesso vino che lui per tutto il tempo dell'intervista ha degustato serenamente alternando piccoli sorsi e sigarette a ripetizione. Una persona semplice, schietta, vera, gioviale nonostante l'aspetto un po' burbero. Con una macchina da presa che non ama luoghi troppo moderni (una volta di proprietà di Ingmar Bergman) Aki Kaurismäki ha realizzato ben diciotto film andando in giro in lungo e in largo seguendo unicamente il cuore. Cinquantaquattro anni, residente sulle montagne del nord del Portogallo, un grande talento di narratore e una grande maestria nel raccontare le storie semplici di gente semplice, di quelle che fanno riflettere, commuovere e anche sorridere, Aki Kaurismäki è senza dubbio uno dei cineasti europei più talentuosi. Un autore che ha sempre dimostrato grande sensibilità ed abilità nel raccontare vite in crisi di gente smarrita, di popoli in crisi, di un mondo in crisi, una crisi che è dapprima morale e poi economica e politica. Della società contemporanea, di quell'universo fatto di umanità normale alle prese con le piccole grandi difficoltà quotidiane della vita parla anche il suo ultimo film, Miracolo a Le Havre, una delicata storia di solitudine e di sentimenti che lascia intravedere in tanta negatività un barlume di speranza per il futuro. Inspiegabilmente escluso dalla rosa dei premiati all'ultimo Festival di Cannes, Miracolo a Le Havre rimane sempre in bilico tra realtà e fiaba contemporanea, tra passato e presente, riuscendo a toccare il tema delicato dell'immigrazione narrando la storia di Marcel (un bravissimo André Wilms), un ex scrittore improvvisatosi umile lustrascarpe che si è buttato alle spalle il suo passato bohemien parigino per ritirarsi a vita tranquilla insieme alla moglie Arletty. A smuovere la sua quotidianità di quartiere arriva il peggioramento della malattia della moglie e il piccolo Idrissa, un giovanissimo migrante africano (Blondin Miguel) giunto al porto in un container dopo mille difficoltà con in tasca il sogno di raggiungere la madre a Londra. Un sogno non impossibile per la cui realizzazione Marcel lotterà con tutte le sue forze. Nelle sale italiane dal 25 novembre prossimo grazie alla BIM, Miracolo a Le Havre sarà presentato in anteprima giovedì 24 novembre a Torino in occasione della serata di preapertura del 29° Torino Film Festival che premierà il regista finlandese con il Gran Premio Torino 2011.

Ha girato in largo e lungo l'Europa per trovare la location adatta per girare il suo film, come ha scelto Le Havre?
Aki Kaurismäki: Me ne stavo tornando a casa deluso e scoraggiato quando sono giunto a Le Havre, una cittadina portuale che al contrario di altre sue 'sorelle' ha ancora il porto nel centro città e non dislocato in zone periferiche. E' considerata un po' la Memphis francese, un luogo in cui le contaminazioni musicali del soul, del blues e del rock'n'roll sono molto forti. Insomma è un piccolo angolo di mondo non molto moderno, la mia macchina da presa non ama la modernità, le architetture moderne mi fanno male agli occhi (ride).

Cosa non l'ha convinta di paesi come l'Italia o la Spagna in cui il problema dell'immigrazione è molto sentito?
Aki Kaurismäki: Avevo pensato di girare a Cadice, in Spagna, ma era una cittadina troppo piccola per le esigenze di produzione della mia troupe, non volevo aggiungere complicazioni a quelle che già ci sono di solito durante la lavorazione di un film che coinvolge la movimentazione logistica di trenta o anche quaranta persone ogni giorno di riprese. Avevo pensato anche a Marsiglia, ma avrei reso la vita impossibile a tutti visto che per viaggiare da una parte all'altra della città si possono impiegare anche ore. Le Havre fu bombardata durante la seconda guerra mondiale ma quando fu ricostruita le strade vennero concepite per essere ben mezzo metro più larghe degli Champs-Elysées, quindi girarci il film non mi avrebbe creato alcun problema logistico.

All'Italia non ha pensato?
Aki Kaurismäki: Avevo pensato anche a Genova, altra città che ha ancora il porto nel suo centro nevralgico, ma la pigrizia mi ha fermato, non ce l'avrei mai fatta a imparare l'italiano, assai più complicato del francese. A farmi propendere per la Francia è stato il fatto di aver già lavorato con una troupe francese in Francia quando ho diretto Vita da bohème.

La sua intenzione è quella di fare come Woody Allen che si diverte a girare un film in ogni paese europeo?
Aki Kaurismäki: Non farò mai nulla come Woody Allen, mi è ancora rimasta un po' di autostima, non sono uno che corre dietro al denaro, tanto meno sono interessato a fare film a ripetizione. Il problema è che nella vita so fare solo questo lavoro quindi sono costretto a continuare per causa di forza maggiore (ride). E poi sono troppo pigro per mettermi di nuovo in viaggio avere le idee ben chiare...

Di fatto Miracolo a Le Havre è una favola che ha come protagonisti persone di una certa età e un bambino, non ci sono giovani. E' perchè secondo lei i buoni sentimenti abitano unicamente nel cuore sincero dei bambini e in quello di chi ha vissuto tante esperienze e non ha più nulla da chiedere alla vita?
Aki Kaurismäki: I giovani di sera vanno in discoteca a divertirsi e di certo non avrei potuto girare una storia di questo tipo nei quartieri del divertimento. E poi odio il rumore, mi piace la tranquillità, l'introspezione, il silenzio.

Per uno come lei che vede il cinema come emozione, quanta importanza ha la scelta delle musiche e il loro uso non solo come colonna sonora ma più come 'presenza'?
Aki Kaurismäki: La verità è che sono un pigro da Guinness dei Primati, soprattutto nella scrittura dei dialoghi, e quindi uso la musica come riempitivo dei silenzi che caratterizzano i miei film. Ho cominciato a fare questo lavoro trent'anni fa, sia come sceneggiatore che come regista, e all'inizio scrivevo dialoghi lunghissimi, anche di sei pagine ciascuno, poi mi accorgevo che in sala montaggio tutto il mio lavoro veniva vanificato e allora col passare degli anni ho finito per asciugare il tutto riducendo al minimo le parole. Questo è uno dei miei film più parlati, quindi pensate gli altri (sorride). Ci tengo a precisare che non disdegno i film parlati, mi piace guardarli e talvolta penso anche di farli, ma poi quando arrivo al dunque mi faccio sopraffare da una specie di blocco e torno ad essere conciso.

Cosa la spinge ad avvicinarsi così tanto ai canoni del cinema muto e le ha fatto venire voglia nel 1999 di dirigere Juha, il suo unico film senza dialoghi?
Aki Kaurismäki: Come ho detto prima non amo molto il rumore, quando inizio a lavorare ad un film spiego tre cose fondamentali agli attori: prima cosa consiglio loro di improvvisare, di sfogare la loro vulcanicità e i loro sentimenti più spontanei, secondo consiglio loro di concentrare le loro espressioni in un'alzata di sopracciglio (ride) e terzo di non muovere troppo le braccia, di usare movimenti lenti e rilassati. Se ci fate caso nei miei film non si vede mai nessuno correre o ridere...

Però in Miracolo a Le Havre il ragazzino africano corre e scappa dalla polizia per raggiungere il suo sogno...
Aki Kaurismäki: Esatto, questo conferma che le regole esistono per essere infrante (sorride mentre sorseggia un po' di vino).

Il suo film è tutto sommato ottimista, si mette in risalto la speranza e la solidarietà. In un momento in cui una grossa crisi finanziaria sta distruggendo tutto, l'unica speranza è quella di ritrovarsi umanamente e di riscoprire i rapporti umani?
Aki Kaurismäki: Ogni volta che faccio un film lo faccio perchè mi piace raccontare storie, non perchè mi piace trasmettere messaggi, ogni spettatore è libero di interpretare un film attraverso la propria sensibilità e ognuno ci vede sempre qualcosa di diverso. Penso che nel momento in cui non avremo più speranze non avremo neanche più motivo di essere pessimisti perchè il peggio sarà già arrivato. Se poi nessuno ride o piange nei momenti in cui tu regista pensi che si debba ridere o piangere, allora vuol dire che hai fallito.

Lei ci crede nei sentimenti e nella bontà d'animo delle persone?
Aki Kaurismäki: Se non credessi nella bontà della gente non sarei più in giro da tempo. Mi sarei ritirato in solitudine.

I film sul tema dei rifugiati e sull'immigrazione non si contano più, lei ha scelto questo argomento come pretesto per raccontare una storia o si è posto l'obiettivo di dare un taglio diverso rispetto a quel che si vede di solito?
Aki Kaurismäki: Non credo che il cinema debba impartire lezioni a nessuno, la gente non va al cinema per imparare, esiste la scuola per questo, al cinema si va per altri motivi. Io ad esempio ci vado per ridere o piangere, per emozionarmi e non per ascoltare lezioni di vita, a mio avviso il cinema è stato inventato per questo. E poi non sono di certo il regista adatto per raccontare storie di critica sociale (ride). .

Ha detto che va spesso al cinema, cosa pensa del cinema americano della Hollywood di oggi?
Aki Kaurismäki: Ci sono due diverse Hollywood per me, quella fino al 1962 e quella successiva. Per me il cinema vero è quello di Truffaut, di Kurosawa di Robert Bresson, ma mi piace molto il cinema indipendente americano. Nonostante gli enormi mezzi economici di Hollywood se vi chiedo qual è secondo voi l'ultimo vero capolavoro sfornato dalle majors negli ultimi venticinque anni scommetto che nessuno mi sa dare una risposta convincente. Se volete sapere la mia opinione, l'ultimo capolavoro americano che ho visto è stato Il lungo addio di Robert Altman. Non ci sono più buoni scrittori purtroppo, il cinema americano è come un serpente a sonagli, sembra morto ma continua a cercare di mordere alzando piano piano la testa ogni tanto.

Il suo film è anche un omaggio a Melville, c'è un poliziotto vestito di nero, un inseguito, un omaggio anche al noir francese. Ci spiega a tal proposito la presenza del cattivo del film interpretto da Jean-Pierre Léaud, l'attore de I 400 colpi di Truffaut?
Aki Kaurismäki: All'epoca de I 400 colpi Léaud aveva tredici anni e interpretava un ragazzo in fuga perseguitato dalla società. Con questa interpretazione ho voluto mostrare le sorprese che la vita talvolta può riservarci se non stiamo attenti e non ci rendiamo conto di cosa succede intorno a noi. E' bizzarro che lui qui faccia la parte dell'informatore della polizia svelando la presenza del giovane rifugiato in fuga dopo aver vestito gli stessi panni molti anni prima. Credo che questa sia la nota più pessimistica della storia, un aneddoto che mette in luce come la società riesca indirettamente a privarci della nostra moralità.

Perché tutti i suoi film sembrano e a volte sono ambientati negli anni '50? Cosa la spinge verso quei colori particolari, quegli arredamenti e quella tipica luce? Cosa l'affascina di quell'epoca?
Aki Kaurismäki: Non so, è come se mi sentissi ancorato in maniera indissolubile agli anni in cui ero piccolo, come se non mi sentissi a mio agio in questo mondo di oggi, sono nato negli anni '50, un'epoca gloriosa in cui ci si conosceva tra vicini di casa. Ora hanno tutti il videocitofono con la telecamera di sicurezza e amano trincerarsi in casa. Sarà per questo che ho scelto di vivere in montagna.

Nei prossimi giorni riceverà dal Torino Film Festival il Gran Premio Torino per la sua carriera passata e per quella futura, si sente un po' in ansia ad essere premiato per qualcosa che deve ancora fare?
Aki Kaurismäki: A questo punto della mia carriera penso di aver detto attraverso i miei film tutto ciò che volevo dire, sento che comincio già a ripetermi, come un pittore che continua a dipingere quadri diversi con gli stessi colori.