Agostino Ferrente e Giovanni Piperno ci raccontano Le cose belle

La nostra intervista esclusiva ai due registi del documentario presentato in anteprima a Venezia lo scorso settembre e selezionato in concorso alla VXIII edizione del MED Film Festival a rappresentare il cinema italiano.

Quattro ragazzini napoletani filmati per ben due volte da una coppia di registi che, a distanza di dieci anni dal primo incontro sul set, tornano nelle loro vite per capire cosa è accaduto e cosa non è accaduto nel frattempo. Le cose belle racconta in un modo decisamente inusuale quattro vite a confronto nella Napoli speranzosa del 1999 ed in quella in cerca di riscatto di oggi. Quattro sguardi pieni di bellezza, disillusione, cinismo ed ingenuità che ci dimostrano che Napoli è una delle poche città del mondo in cui il tempo non esiste ma anzi è "una credenza popolare, una superstizione, una scaramanzia, un trucco, una canzone. Il tempo a Napoli si passa ad aspettare, e poi, all'improvviso...a ricordare. Ma allora, le cose belle arriveranno? O le cose belle erano prima?". Abbiamo incontrato a Roma i due registi del film Agostino Ferrente (uno dei fondatori dell'Orchestra di Piazza Vittorio) e Giovanni Piperno (L'esplosione, Il pezzo mancante) che ci hanno raccontato il loro film a partire dalle origini, qualche retroscena sulla lavorazione e ci hanno anche confessato come sia difficile al giorno d'oggi imporre un certo tipo di cinema nel nostro Paese.

Perché secondo voi il MED Film Festival ha selezionato Le cose belle come rappresentante italiano e unico documentario tra i film in concorso che sono tutti di finzione?
Giovanni Piperno: I linguaggi del cinema moderno, che sia di finzione o documentario, si sono mescolati talmente tanto che oggi questi due modi di fare cinema che una volta erano completamente diversi si somigliano molto fino a volte a confondersi l'uno con l'altro. Quel che ci gratifica di più è il fatto che il rong>MED ci abbia finalmente sdoganati dal nostro ruolo di documentaristi puri inserendo il nostro film nel concorso. Credo che la scelta sia stata fatta alla luce dell'aspetto tecnico e stilistico, non tanto per la tematica.

In effetti in alcuni momenti non sembra di essere di fronte ad un documentario...
Giovanni Piperno: Specialmente la seconda parte del nostro lavoro è infatti molto cinematografica, c'è molta messa in scena di accadimenti veri ricreati da noi insieme ai quattro protagonisti. Dopo un lungo lavoro di post-produzione l'impressione che abbiamo avuto entrambi è stata quella di essere riusciti a fare il primo piccolo passo dal documentario in direzione del film di finzione.

Com'è nato il progetto del film?
Agostino Ferrente: Nel 1999 siamo stati contattati dalla Rai che ci ha commissionato "Intervista a mia madre", un documentario per la tv che raccontasse alcuni frammenti di adolescenza nella città di Napoli, ma solo qualche tempo dopo abbiamo capito che avevamo intercettato un tema molto attuale, molto sentito e portatore di grandi novità come l'immigrazione verso l'Italia. Il nostro Paese per anni ha prodotto solo emigranti ed ora che abbiamo raggiunto il benessere si è creato c'è il fenomeno inverso. E' buffo poi come in questo periodo ci sia stata la proliferazione di registi italiani e stranieri che hanno raccontato questa dinamica legata al Mediterraneo. Il mio a Napoli è stato un ritorno interessante e interessato perché nonostante Napoli sia forse la città italiana che ha prodotto più emigranti ci siamo trovati a gestire un fenomeno diverso. Noi siamo tornati a Napoli e ci siamo resi conto che le persone stanno ricominciando a partire ma non ci bastava prenderne coscienza volevamo anche capire nel frattempo cos'era realmente successo al sud.

Girare una parte del documentario a distanza di dodici anni dalla prima dev'essere stato molto più semplice tecnicamente, ma quanto avete faticato durante il montaggio per sovrapporre due prodotti girati con uno stile diverso e con un mezzo diverso e molto più tecnologico?
Giovanni Piperno: Con questa domanda vai a girare il coltello nella piaga (ride). E' stato proprio questo il problema più complicato da risolvere durante il montaggio del film. Sognavamo di fare qualcosa di completamente diverso rispetto al primo documentario, un'opera di più ampio respiro e libera dalle costrizioni documentaristiche che partisse dal presente per poi tuffarsi nel passato e tornare continuamente avanti e indietro nel tempo. Questo però non consentiva allo spettatore di affezionarsi ai personaggi perché l'empatia si crea solo se inizi a raccontare la loro storia dall'inizio e cioè da quando siamo andati a riprenderli che erano ancora dei bambini. Per mesi e mesi, fino alla notte appena trascorsa, abbiamo cercato di aggiustare il tiro e di trovare un equilibrio che ci permettesse di amalgamare tutto in un unico blocco nonostante le differenze a livello visivo che intercettano ad ogni cambio di campo il passato e il presente dei quattro ragazzi.

Quindi la proiezione prevista qui al MED Film Festival alla Casa del Cinema sarà la prima in assoluto del film in versione definitiva? Cosa avete aggiunto?
Agostino Ferrente: La cosa più importante che abbiamo aggiunto è stato un frammento di film in cui il ragazzo che sognava di cantare, Enzo, e che dopo essersi rivisto durante la proiezione alla Mostra di Venezia ha cambiato idea sul fatto di rimettersi in gioco e di provare a realizzare il suo sogno di diventare un cantante. Dopo anni in cui si era rifiutato nella maniera più assoluta di cantare, improvvisamente si è alzato ed ha cominciato a cantare. Noi ci siamo talmente emozionati dopo questa cosa che siamo tornati a Roma ed abbiamo ricostruito la scena per introdurla nella versione finale e definitiva del film portata a termine la notte scorsa. Crescendo e rivedendosi Enzo ha assunto una consapevolezza di sé che anni fa era impensabile, ed ora nonostante le difficoltà ha trovato nuovamente il coraggio di inseguire il suo sogno. Speriamo che qualcuno si accorga di lui guardando il film...

Come vi siete trovati a filmare la stessa storia negli stessi luoghi dell'epoca ma con in mano un mezzo tecnico completamente diverso da quello che avevate allora?
Agostino Ferrente: All'epoca girammo il documentario per la RAI con i mezzi leggeri del DVCAM, a cui siamo immensamente grati per aver apportato una vera e propria rivoluzione nel campo cinematografico e per averci consentito il passaggio dal dilettantesco al professionale con bassi costi e molta libertà d'azione, e con un budget che visto con gli occhi di oggi è qualcosa di fantascientifico. Il tutto con i tempi imposti dal mezzo televisivo ed un tempo di produzione di circa tre mesi che era perfetto per quel tipo di progetto ma che non rendeva giustizia alla complessità delle vite dei protagonisti raccontate forse un po' troppo superficialmente. In virtù della liberta di cui parlavo poco fa siamo tornati diversi anni dopo a Napoli ed abbiamo deciso di prenderci un periodo molto più lungo da dedicare ai ragazzi quasi a voler restituire loro l'attenzione che all'epoca non eravamo stati in grado di dare. E l'abbiamo fatto con un mezzo ad alta definizione assai più sofisticato del precedente e con un linguaggio anche diverso che come approccio si avvicinava più al cinema di finzione che a quello documentaristico.

Nessuna voce fuori campo, nessuna intervista. Dal vostro film traspare un senso di libertà assoluta nei confronti del mezzo cinematografico ed un forte sentimento di rispetto nei confronti di questi quattro giovani..
Agostino Ferrente: Abbiamo preteso che fosse il film a raccontare le storie di questi personaggi e non che fossero i personaggi a raccontarsi davanti alla macchina da presa. Questa scelta si è rivelata un enorme ostacolo alla realizzazione del film complessivo, perché è in fase di montaggio che è sorto il problema di trovare il giusto modo di alternare momenti della stessa storia narrati con linguaggi, immagini e stili diversi. Trovare l'amalgama giusta è stata cosa piuttosto complicata. Alla fine, dopo mille tentativi, siamo riusciti a trovare la giusta via di mezzo ed abbiamo fatto di necessità virtù e tutte le differenze tra passato e presente sono diventate il punto di forza della narrazione perché restituiscono in maniera perfetta la diversità tra due epoche non troppo distanti tra loro.

Quando si filma la vita di una persona si viene a creare un legame fortissimo tra chi sta davanti e chi sta dietro alla macchina da presa, un rapporto imprescindibile di grande fiducia reciproca. Il vostro ritorno a Napoli dopo tanti anni è stato il vostro modo di ringraziare questi ragazzi?
Giovanni Piperno: Sin dalla prima volta che li abbiamo visti, nel lontano 1999, c'è sempre stato tra noi e loro un rapporto di scambio, noi li abbiamo aiutati a completare gli studi lasciati in sospeso e a chiarire alcune complesse dinamiche familiari con i genitori, loro ci hanno concesso di entrare nelle loro vite e di raccontarle in tutto il loro realismo. Più che per ringraziarli siamo tornati da loro per rendere giustizia al nostro lavoro che era stato a dir poco sbrigativo rispetto ai tempi canonici con cui un documentarista di creazione riesce a scrivere e a completare la sua opera chiudendo il famoso cerchio. Questo però a prescindere dal fatto che siamo tornati a distanza di tanti anni, questa è stata una casualità che si è verificata per cause di forza maggiore. In realtà noi eravamo pronti a tornare a trovarli già qualche anno dopo il primo documentario ma poi il progetto si chiuse con un nulla di fatto e decidemmo di farlo lo stesso per conto nostro tre anni fa.

C'è un aneddoto, un ricordo, una frase, un qualcosa che vi è rimasto nel cuore di tutto il periodo delle riprese del film? Insomma, c'è una cosa particolarmente bella tra tutte quelle che vi hanno lasciato questi ragazzi?
Giovanni Piperno: Mi è rimasto impresso il modo con cui Silvana, una ragazza piena di problemi con una situazione familiare molto complicata, ha potuto constatare che all'interno di un contesto come quello del film anche la sua vita sgangherata e scombussolata aveva un senso profondo ed avrebbe potuto essere d'aiuto anche ad altro suoi coetanei. Grazie a questo film lei ha imparato ad essere orgogliosa di sé.
Avremo la possibilità di vederlo passare in tv prima o poi o di vederlo in sala?
Agostino Ferrente: Al momento no, siamo in trattative con RaiCinema ma non so se la cosa andrà a buon fine, purtroppo mancano gli spazi per ospitare in un palinsesto un documentario di questo tipo. I documentari purtroppo raramente vengono presi in considerazione e quando accade vanno ad occupare una fascia notturna in terza serata che ovviamente non offre una diffusione adeguata. Se oggi fai un documentario storico, naturalistico o che parla di moda e design forse hai qualche speranza, ma se vai sul sociale è molto molto difficile.
Giovanni Piperno: In Italia purtroppo è una vita difficile quella del documentarista, se inizi la tua carriera come regista di film di finzione e poi passi ai documentari allora va tutto bene, ma se nasci documentarista la tua vita professionale diventa molto complicata e per continuare a fare quello che ti appassiona devi per forza girare un buon film di fiction e poi, forse, ti lasciano continuare quello che avevi iniziato.

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