Recensione L'esplosivo piano di Bazil (2009)

La creatività di Jean-Pierre Jeunet riesce nuovamente a sfornare una favola originale dalla storia fantasiosa, dai personaggi surreali e dal memorabile protagonista, un maestoso e chapliniano Dany Boon.

A spasso con Bazil

Aprile '79. Un bambino perde il papà perché sfortunatamente una mina che stava cercando nel deserto esplode. Trent'anni dopo. Lo stesso bambino, ormai cresciuto, rischia di perdere la vita perché per caso una pallottola gli è penetrata in testa fuori dal negozio in cui lavorava. Una trama così basterebbe da sola a porre le basi di un film cupo, di un revenge movie alla Tarantino o alla To, ma quando c'è di mezzo il papà di Amélie Poulain e il gioco si fa duro sono i meno duri che cominciano a giocare. Così a fare la parte del "giustiziere" è un improbabile eroe dal cuore tenero e dai modi gentili, un sognatore fuori dalla norma che ha fantasia da vendere e amici che gli assomigliano per straordinarietà. Bazil infatti non si arrende di fronte ai dinieghi e alle perdite che il potere dall'alto gli ha inferto e, facendo leva su un'umanità sentimentale, aiutato da un'allegra combriccola di bizzarri rigattieri circensi, chiamati MicMac, realizza un impensabile piano per vendicarsi dei cattivi e consegnarli alla giustizia. E al popolo di internet.


La creatività di Jean-Pierre Jeunet riesce nuovamente a sfornare una storia fantasiosa, che mescola generi diversi producendo una favola originale che ricorda Big Fish e in cui un eterno Peter Pan fa i conti con la realtà, la propria. Bazil è un personaggio che sbuca fuori dal corpo lungo e dall'espressività intensa di Dany Boon, il quale riesce a dargli un tocco chapliniano senza pari. Boon non veste la bombetta e non afferra il bastone come aveva fatto Robert Downey Jr. in Charlot eppure gli basta zittirsi, scrollare il capo e allargare lo sguardo per ricordare in un baleno l'indimenticabile e adorabile vagabondo di Tempi moderni. Irresistibilmente buffo e romanticamente malinconico il mimo surreale del duo Boon-Jeunet si guadagna la scena rispolverando con impavida naturalezza le vecchie comiche del cinema muto e destreggiandosi in un repertorio ben congegnato di gesti e momenti arguti in cui non finisce mai per imbalsamarsi. Jeunet si affida consapevolmente al suo nuovo attore feticcio, l'ultimo - solo in ordine cronologico - che va ad aggiungersi alla folta schiera dei suoi proverbiali saltimbanchi francesi, di cui ritroviamo la faccia elastica di Dominique Pinon, il volto severo di André Dussollier e la matrona Yolande Moreau.

Ma Jeunet non si serve dei meccanismi dei soliti piagnucolismi tragici né dei reiterati inserti da show brillante per mettere a punto la sua dolcissima ballata: come un orologiaio preciso il regista costruisce pazientemente un ingranaggio speciale in cui ogni marchingegno s'incastra con l'altro. Così tira in ballo la compagnia dei rigattieri, ognuno con una facoltà corporea o mentale eccezionale, per sviluppare i temi che da soli avrebbero affondato il protagonista, come lo smarrimento di un borderline ai margini della società delle convenzioni e dei giochi di potere. Come in Tideland gli scalmanati idioti rinchiusi nel loro intimo covo meccanico, tra vecchi rottami e invenzioni poetiche, offrono al protagonista la possibilità concreta di vivere nel suo strambo universo, al riparo da quell'imponente cielo cittadino che gli effetti visivi non dimenticano di enfatizzare. In questo modo allo spettatore si concede l'illusione di avere di fronte un film in cui tutto quello che s'immagina non è frutto della fantasia ma della realtà mirabolante dei suoi personaggi cartoonizzati.
L'esplosivo piano di Bazil segna il ritorno del regista di Delicatessen alla qualità artigianale e allo stile personale di un cineasta che sa ancora distinguersi in Europa e nel resto del mondo reinventando il cinema contemporaneo e la propria poetica. Jeunet rigenera con una fervida immaginazione la commedia sentimentale riportandola alle sfumature delicate di Jacques Tati e realizzando con una sapiente operazione di patchwork un calibrato e memorabile intreccio tragicomico umano da ridere e da piangere. Sul piano dell'immagine un effervescente dinamismo delle riprese, con inquadrature vivaci e dai tagli più vari, permette di esplorare l'universo estroso e ammucchiato di Bazil-Jeunet e di scandirne il ritmo come un carillon che incanta ma non è incantato. Le componenti tematiche, narrative ed estetiche del cinema di Jeunet trovano un equilibrio stabile nell'ingenua verve neoromantica de Il favoloso mondo di Amélie proprio come la tendenza del postmodernismo a incrociare citazioni (come l'appassionato omaggio a Humphrey Bogart) e autoreferenzialità (come il verso a Delicatessen e a La città perduta). Non mancano qualche vezzo che sfiora il manierismo né certe civetterie che adombrano la riuscita del film, come l'epilogo da slogan politico, ma di fronte al talento visionario di Jeunet e alla faccia da buffone di Boon si fa davvero fatica a ricordarli dopo qualche fotogramma.