A passeggio con Elisa Fuksas e la sua Nina nella magia dell'EUR

Dopo alcuni anni di esperienza nei video e cortometraggi, la regista esordisce nel suo primo lungometraggio unendo il suo background architettonico all'amore per le composizioni mozartiane e alla volontà di raccontare una giovane donna alla ricerca di una direzione definitiva

Poco più che trentenne, una laurea in architettura ed un workshop in regia a New York terminato con la realizzazione del suo primo cortometraggio Marni. Queste sono alcune delle credenziali di Elisa Fuksas che, dopo sette anni di esperienza nella direzione di video e corti, oggi riesce ad esordire nel lungometraggio grazie a Nina, presentato e premiato con una menzione speziale all'ultima edizione del Bif&st. Con questo film la regista, archiviata anche l'esperienza documentaristica de L'Italia del nostro scontento, si dedica a tratteggiare un ritratto artistico e onirico di una Roma estiva deserta ed immobile. A fare da guida all'interno di questa realtà sono appunto Nina, una giovane con il sogno della Cina e il piccolo Ettore, un bambino misterioso che sembra possedere le chiavi di tutti gli appartamenti dello stabile. Grazie al loro rapporto e ad un ambiente circostante silenzioso e apparentemente irreale, la ragazza riuscirà a comprendere che per dare un senso alla propria esistenza deve imparare ad ascoltare se stessa e gli altri. A presentare il film, distribuito da Fandango il 18 aprile, oltre alla regista, ci sono la co-sceneggiatrice Valia Santella e l'interprete Diane Fleri.

Elisa, il tuo primo film ha già ottenuto molti consensi ai festival, tra cui una menzione speciale al Bif&st. Come è nata l'idea di questo primo lungometraggio dall'estetica architettonica? Elisa Fuksas: Questa è una delle domanda più difficili da fare ad un regista. In realtà il film ha una percorso strano e lungo che non sto qui a raccontare. Ma la cosa che esisteva in tutte le sceneggiature possibili fin dall'inizio è sempre la stessa vicenda di una giovane donna incapace di sentire. Ecco, questa è stata l'idea portante.

Come avete deciso di declinare questo elemento centrale in fase di sceneggiatura? Valia Santella: Appena ho incontrato Elisa ho capito che aveva le idee chiare sul sentimento del film e sull'aspetto visivo. Questi due elementi sono nati praticamente insieme. Lo stato d'animo d'attesa e l'incompiutezza è quello che lei ha cercato e ricostruito attraverso una Roma deserta in cui si attende che le cose accadano.

Ad accompagnare lo spettatore tra le architetture e gli spazi dell'Eur è Nina, una ragazza con molti, forse troppi, progetti. Come avete costruito il personaggio? Diane Fleri: Prima di tutto abbiamo cercato di capire Nina. Con Elisa ci siamo incontrate sempre facilmente perché tutte e due avevamo qualche cosa di lei. Ed io ho scoperto di capire il personaggio in un momento in cui la vita mi parlava proprio delle stesse cose. Quindi mi sono trovata fin troppo coinvolta. Nina si trova nella classica crisi che precede una crescita personale. Nel frattempo cerca di capire chi è, nonostante abbia difficoltà a fare una scelta. In fin dei conti, passeggia nelle vite altrui senza prendersi la responsabilità di essere qualche cosa oltre che una semplice turista.

Ci troviamo di fronte ad un progetto dalla grande personalità che vive di forti suggestioni artistiche. Quanto è stato difficile raccontare questa storia sul piano delle immagini? Elisa Fuksas: Quando sei giovane e poco esperta la cosa difficile è convincere qualcuno di potercela fare. A quel punto deve instaurarsi una sola dinamica, che è quella della fiducia con il tuo produttore, chiamato ad affidarsi a te quasi ciecamente. E in questo io sono stata fortunata.
Diane Fleri: Questa volta ho l'impressione di aver partecipato ad un'opera d'arte. Perché, prima ancora della volontà di raccontare una storia c'era una personalità originale che vuole esprimersi.

Quando all'immagine viene affidato il duplice compito rappresentativo e narrativo, una figura fondamentale per la riuscita finale è quella del direttore della fotografia. Com'è avvenuta la scelta di Michele D'Attanasio? Elisa Fuksas: L'unica certezza che avevo era di voler fare un film da sola. Con questo non intendevo limitare l'importanza di una figura fondamentale come quella del direttore della fotografia, ma desideravo affiancarmi a qualcuno simile a me dal punto di vista generazionale. Per questo motivo la collaborazione con Michele è stata perfetta. Si è rivelato immediatamente un compagno di lavoro silenzioso, intelligente e capace di rimandarti ogni tua intenzione con grande precisione. Ci ha accomunati, ad esempio, la cura maniacale per lo studio dell'ombra e della luce, visto che in una struttura geometrica come quella dell'Eur anche un quarto d'ora fa la differenza.

Continuando a parlare proprio dell'ambientazione, durante le riprese non hai mai fatto riferimento ai grandi autori come Petri, Antonioni, Fellini e Morettti che, prima di te, hanno fotografato il quartiere? Elisa Fuksas: Nel momento in cui ho iniziato a lavorare ho fatto finta che nessuno fosse stato lì prima di me. Altrimenti sarebbe stato paralizzante. Ora che il film è diventato qualche cosa che non mi appartiene più, però, sono gli altri che mi fanno notare i vari riferimenti. La cineteca di Milano, ad esempio, lo ha definito un Bianca 2.0. L'unica citazione voluta è quella della testa di cervo in cucina con cui ho omaggiato David Lynch.

Il tuo cinema ha una sensibilità geometria molto forte che rimanda, inevitabilmente, ad un background architettonico. Credi di continuare su questa scia stilistica? Elisa Fuksas: Io credo di essere malata di architettura, nel senso che l'ho studiata senza voler veramente fare l'architetto. Credo che si tratti di un'affezione da cui non posso guarire. Penso, però, che sia anche una risorsa, dato che vedere tridimensionalmente le cose è una caratteristica da non sottovalutare.