57. Festival Internazionale del film di Locarno

"Un festival libero. Un festival libero dai diktat delle mode, dalle necessità, dalle imposizioni, dalle esigenze che non siano le nostre, quelle del nostro pubblico, quelle di un programma interessante, vivo, appassionante, originale. E' questo il nostro festival di quest'anno." (Irene Bignardi, catalogo ufficiale di Locarno 2004)

Valutare un festival appena si è concluso non è operazione facile. Se poi l'abbondanza delle opere in concorso finisce per segnare in modo distintivo la kermesse, il tutto assume connotati ancora più complessi. Proviamo a fare un po' di ordine, muovendo il discorso dalla direzione artistica della manifestazione, affidata per la seconda volta consecutiva alla giornalista Irene Bignardi. Nella sua prefazione inserita nel catalogo ufficiale di Locarno 2004 si legge: "Un festival libero. Un festival libero dai diktat delle mode, dalle necessità, dalle imposizioni, dalle esigenze che non siano le nostre, quelle del nostro pubblico, quelle di un programma interessante, vivo, appassionante, originale. E' questo il nostro festival di quest'anno". Ebbene, anche se si avrebbe qualcosa da obiettare sull'effettiva emancipazione del Locarno Film Festival dalle tendenze festivaliere più modaiole (ormai tutte più o meno informate dalla volontà di celebrare piccole opere indipendenti realizzate dai più misconosciuti filmakers terzo o quarto-mondisti), di aspetti interessanti questa 57° edizione ne ha senza dubbio avuti. A partire dalla scelta della retrospettiva, intitolata "Newsfront" perché ispirata all'omonimo film di Phillip Noyce che nel 1978 decise di realizzare una pellicola sul mondo dell'informazione postbellica (l'era dei cinegiornali per intenderci) attraverso un prezioso compendio di immagini di repertorio.

Insomma, un leitmotiv serio, impegnato come filo conduttore di una rassegna incentrata sul rapporto tra cinema e giornalismo (investigativo, d'inchiesta, politico ed economico) e avvalorata dalla nobile presenza tanto di cult movies come L'affaire Dreyfus (di Georges Méliès, 1899), Quarto potere (di Orson Welles, 1941), Arriva John Doe (di Frank Capra, 1941), Un americano tranquillo (di Joseph L. Mankiewicz, 1958), Blow-up (di Michelangelo Antonioni, 1966), La conversazione (di Francis Ford Coppola, 1974), quanto di recenti produzioni di valore come Sesso & potere (Barry Levinson, 1997) o il nostro Ilaria Alpi - Il più crudele dei giorni (di Ferdinando Vicentini Orgnani, 2003).

Un viaggio nei meandri della tanto articolata relazione tra informazione e grande schermo non poteva che culminare con la proiezione di Tutti gli uomini del presidente (di Alan J. Pakula, 1976), presentato in Piazza Grande in omaggio a Carl Bernstein, eroe dello scandalo Watergate. E proprio dalla conferenza stampa successiva che ha visto partecipare in tavola rotonda il giornalista del Washington Post assieme a Robert Fisk, Hassan Ibrahim, John Lloyd, Ettore Mo e Guido Rampoldi sono arrivate le note più piacevoli dell'evento/iniziativa. Dai contributi esclusivi ed interessantissimi delle diverse personalità partecipanti è infatti scaturita quella che potremmo annoverare come la più recente e matura riflessione sul "perché così spesso il cinema abbia tentato di portare alla luce la verità sul giornalismo".

Retrospettiva a parte, quello di quest'anno è stato il Festival dell'impegno politico e sociale, della più scottante attualità narrata attraverso un cinema specchio della realtà, concreto, a tratti essenziale, quasi mai sensazionalistico ed immaginifico. Quasi da tradizione è stato anche il cinema dell'acqua, con la pioggia battente che spesso e volentieri ha accompagnato le visioni. Ed a proposito di visioni, quelle dell'Europa unita hanno forse costituito la sorpresa più gradita dell'intero festival: Visions of Europe, con i suoi venticinque corti pressoché provenienti da ogni paese del Vecchio Continente, è infatti riuscito a coniugare il relativismo culturale di chi fa cinema con la comune esperienza di entrare in un nuovo status quo definito dall'abbattimento delle barriere territoriali.

Locarno è stato poi il festival dei tributi artistici, presenti e passati. Dalla consegna del Pardo d'onore Longines ad Ermanno Olmi che con il suo Cantando dietro i paraventi (2003) ha definitivamente consacrato il suo ruolo di narratore storico, cineasta epico ed indiscusso maestro della rappresentazione allegorica, al commosso omaggio al mitico Marlon Brando, celebrato con la proiezione in Piazza Grande del Queimada (1970) di Gillo Pontecorvo.

Cosmopolitismo e tensioni reali, si diceva in apertura, hanno padroneggiato nelle file del concorso. 18 pellicole di 17 paesi differenti alle prese che con le loro problematiche realtà, con i loro demoni da esorcizzare, con i conflitti interni, con l'intolleranza antidemocratica, col terrorismo invisibile. Ma se il sud-est asiatico ha finito per monopolizzare la sezione Porte Aperte (con le varie cinematografie vietnamite, cambogiane, del Mekong e del Laos), la competizione principale ha visto trionfare l'unico film italiano in programma: Private di Saverio Costanzo.
Una decisione, quella della giuria guidata dal critico David Robinson e dalla produttrice italiana Tilde Corsi, che non ha lasciato l'amaro in bocca. Il film di Costanzo certamente ha molti pregi e pochi difetti ma, ad avviso di chi scrive, in qualche modo era favorito già in partenza, vantando quel cocktail di ingredienti che non passano inosservati ad un festival del cinema indipendente come quello di Locarno: girato da un regista italiano (per di più figlio d'arte dato che il padre è nientemeno che Maurizio Costanzo) ma con un cast di attori stranieri, attualissimo con una vicenda ruotante intorno al conflitto arabo-israeliano, impegnato politicamente e culturalmente grazie ad una rappresentazione capace di far riflettere sulla convivenza forzata di due gruppi etnici differenti. Insomma, l'impressione è che con la vittoria di Private si sono potuti prendere più piccioni con la stessa fava: allontanare da sé l'immagine sgradita di "festival poco incline al made in Italy e più ammiccante verso la cinematografia indipendente estera" e tributare una pellicola che contenesse al suo interno tutti gli elementi impiegati nell'organizzazione tematica dell'edizione di quest'anno. A farne le spese un film sotto diversi punti di vista decisamente migliore, il provocatorio Promised Land di Michael Beltrami, davvero meritevole di maggior fortuna.

Assolutamente convincente invece la scelta del titolo fuori concorso destinato a chiudere l'intera kermesse. Si tratta del film animato di Shinji Aramaki, Appleseed dall'omonimo manga giapponese. Ambientato in un futuro apocalittico a metà strada tra quello descritto da Ridley Scott in Blade Runner e quello del James Cameron di Terminator, la pellicola narra le vicende della donna soldato Deunan Knute in viaggio verso l'idilliaca città di Olympus, ultimo frammento di una civiltà umana in via di estinzione perché costantemente minacciata dalla devastante e sanguinosa guerra contro le macchine.
Regia suggestiva ed uno straordinario lavoro sulle immagini per un lungometraggio che sembra segnare un nuovo paradigma per quel filone del cinema d'animazione interessato a coniugare l'artigianalità del fumetto giapponese con le più avanzate meraviglie della tecnologia digitale