Recensione K-20: Legend Of The Mask (2008)

Il leggendario criminale dalle 20 facce, una sorta di Robin Hood orientale e metropolitano, deve affrontare il suo acerrimo nemico, l'ispettore Akechi Kogoro, in uno scenario che carica il soggetto di valenze sociali che restano comunque, in massima parte, subordinate alle esigenze narrative.

20 facce per un blockbuster

Quello supereroistico è evidentemente un filone molto fortunato in questo periodo, e questo non vale solo per l'occidente. Già da qualche anno, in Giappone, il cinema mainstream si è adattato a un certo modo "occidentale" di produrre blockbuster, a un uso spregiudicato del digitale, a dimensioni produttive che non hanno niente da invidiare alle pellicole di Hollywood.
Quale che sia il giudizio che si voglia dare su questa tendenza (e con tutte le differenziazioni del caso, ovviamente) non si può evitare di registrare questa evoluzione e di approcciarsi in modo più imparziale possibile a film come questo K-20: Legend Of The Mask. Film che comunque parte da un soggetto prettamente locale, trattandosi di un personaggio creato dallo scrittore Edogawa Rampo e successivamente riadattato nell'ambientazione: non più il Giappone di inizio secolo ma un passato "alternativo" in cui la Seconda Guerra Mondiale è stata evitata e il sistema politico del paese si basa su una rigida divisione per caste. Il leggendario criminale dalle 20 facce, una sorta di Robin Hood orientale e metropolitano, dovrà così affrontare il suo acerrimo nemico, l'ispettore Akechi Kogoro, in uno scenario che carica il soggetto di valenze sociali che restano comunque, in massima parte, subordinate alle esigenze narrative.

Nonostante la sensibilità tipicamente locale da cui il soggetto nasce, il film deve moltissimo al filone dei supereroi ultimamente in auge in occidente, con una regia ricca di acrobatiche sequenze d'azione e un intreccio semplice ma di sicura presa. Personaggi delineati in modo essenziale, una storia d'amore accennata, un protagonista (Takeshi Kaneshiro) immediatamente riconoscibile e tutto sommato adeguato al ruolo: il tutto è evidentemente pensato nell'ottica di una facile presa su un pubblico assetato di emozioni primarie, di un intrattenimento di qualità che non richieda eccessive finezze narrative.
La regia di Sato Shimako (definita, forse con un po' troppa enfasi, la Kathryn Bigelow orientale) è comunque vigorosa, visivamente affascinante grazie anche al tono in gran parte cupo della fotografia; mentre lo script porta bene avanti una storia classica, con spruzzate di humour locale e un'evidente "porta aperta" per possibili sequel. Al nuovo pubblico nipponico del cinema di genere può sicuramente bastare, così come, in fondo, allo spettatore occidentale in cerca di "esotismo" facile: lo spessore di blockbuster atipici come Kyashan - La rinascita è lontano, ma in fondo gli obiettivi qui erano diversi, e possono dirsi, in gran parte, raggiunti.

Movieplayer.it

3.0/5