Recensione Truman Capote - A sangue freddo (2005)

Capote è una pellicola di grande impatto che racconta un uomo dal carattere complesso e contraddittorio, trascinata dalla straripante bravura di un protagonista che aderisce quasi "mimeticamente" al personaggio.

Tra ricostruzione e introspezione

Una pellicola di grande impatto per raccontare un personaggio complesso, sfaccettato e "ostico" per coloro che l'hanno conosciuto. Ispirandosi alla biografia di Gerald Clarke, l'esordiente Bennett Miller ha diretto un film che si concentra sulla genesi del libro A sangue freddo, opera che negli Stati Uniti creò il genere del romanzo-verità. L'idea originaria era quella di un articolo su un brutale fatto di sangue avvenuto nel Kansas, in cui un'intera famiglia di coltivatori aveva trovato la morte: lo scrittore pensò di indagare sulle reazioni della piccola comunità di provincia di fronte a un fatto tanto brutale quanto inaspettato. Solo in seguito, parlando con i due uomini in carcere per il delitto, Capote intuì la possibilità di trasformare la storia in un libro, raccontando il punto di vista dei due assassini, cercando di penetrare nelle loro motivazioni. Così nacque l'embrione di quello che sarebbe diventato il libro più noto dello scrittore, ma nacque anche un ambiguo rapporto con i due assassini, verso i quali Capote non riuscì, suo malgrado, a mantenere le distanze.

L'ottima sceneggiatura di Dan Futterman si concentra, nella prima parte, sulla personalità dello scrittore, sulla sua eccentricità spesso istrionica e cinica, e sulle reazioni che un personaggio di questo tipo, irrimediabilmente "alieno", suscita nella comunità con cui viene a contatto. Ed è proprio dalla constatazione di queste reazioni (superate dalla "mediazione" di Harper Lee, amica dello scrittore e futura autrice del romanzo Il buio oltre la siepe) che Capote inizia a provare una malcelata empatia verso i due assassini, outsider come lui; parlando in particolare di Perry, quello con cui stabilisce il rapporto più profondo e duraturo, lo scrittore dirà testualmente: "è come se noi due fossimo cresciuti nella stessa casa: un giorno lui è uscito dalla porta sul retro e io da quella davanti". Così, raccontando il rapporto tra Capote e Perry, la sceneggiatura ci dice molto sullo scrittore, rivelando solo rapidi flash del suo passato, ma facendo parlare le sue reazioni (anche quelle minime, o apparentemente insignificanti) e sottolineando l'evoluzione, nel corso della storia, del suo modo di rapportarsi al criminale.

In tutto questo, un ruolo fondamentale è giocato dalla splendida interpretazione di Philip Seymour Hoffman, a cui la regia finisce per affidarsi, se non completamente, certo in gran parte: è un'aderenza incredibile, quasi "mimetica" quella di Hoffman al personaggio, con una straordinaria ricchezza di dettagli, a livello di espressività facciale, di movenze e di intonazione vocale (inutile sottolineare che, in quest'ottica, la visione ideale è quella in lingua originale), che compone quella che è probabilmente la migliore interpretazione della carriera dell'attore. Così, partendo da un materiale (di sceneggiatura e attoriale) di così alto livello, Miller deve limitarsi a dare diligentemente forma al tutto, adeguando alla buona ricostruzione d'epoca uno script che media egregiamente tra il rigore della ricostruzione documentaristica e le esigenze più prettamente narrative.

E' in definitiva un'opera dal notevole impatto cinematografico, questo Truman Capote - A sangue freddo (il titolo originale era un più secco Capote), che dimostra come si possano unire istanze diverse (di cronaca, da "spaccato sociale d'epoca", e di intrattenimento intelligente) mantenendo alla base quell'unità di tono e di intenti che da sempre "fa" la riuscita di un film. Un'opera "trascinata" da un protagonista che mostra qui, finalmente, tutto il suo talento, e che, giurano in molti, sarà protagonista in quella Notte delle Stelle guardata ancora oggi con tante ansie ed aspettative, a Hollywood e non solo.

Movieplayer.it

4.0/5